Nell’incontro seminariale svoltosi a fine maggio alla Biblioteca Augusta di Perugia sugli scritti politici di Walter Binni è stato più volte citato un articolo contenuto nel volune, ma apparso per la prima volta nel 1988 su “Cinema nuovo” dal titolo Il messaggio della “Ginestra” ai giovani del ventesimo secolo, anche come risultato dei partecipatissimi incontri con i giovani su La Ginestra, che Binni aveva avuto negli anni precedenti a Perugia, a Terni e a Città di Castello. Il titolo suscita, in vero, qualche perplessità. Perché mai Binni avrà voluto sintetizzare il messaggio del grande poemetto leopardiano ai giovani del ventesimo secolo nel 1988, quando il secolo in questione se n’era già andato? La lettura del saggio lo spiega senza equivoci. Leopardi annotò nello Zibaldone l’intenzione di scrivere un Lettera a un giovane del ventesimo secolo, ma il progetto non venne mai realizzato nella forma epistolare. Walter Binni con buoni argomenti ci persuade che i contenuti filosofici ed etici non sarebbero stati diversi da quelli della Ginestra, che di Leopardi fu il vero e proprio testamento poetico. Ma il saggio di Binni fa di più: rilancia ed attualizza il messaggio del poeta recanatese al punto che il suo testo ottimamente si propone come lettera ai giovani del ventunesimo secolo.(S.L.L.)
Walter Binni e Aldo Capitini |
Il messaggio della «Ginestra» ai giovani del ventesimo secolo.
«Cinema Nuovo», a. 37°, n. 3, maggio-giugno 1988. Il testo sarà poi raccolto in W. Binni, Poetica, critica e storia letteraria, e altri saggi di metodologia, Firenze, Le Lettere, 1993
La Ginestra, scritta nel 1836 quasi alle soglie della morte, desiderata e presentita, è, nell’economia interna della vicenda vitale e intellettuale-poetica del Leopardi, il suo supremo messaggio etico-filosofico espresso interamente in una suprema forma poetica, mentre nella storia letteraria - su piano non solo italiano - è insieme, non solo il piú vigoroso ed alto dei «messaggi» dei grandi poeti dell’epoca romantica (Friedensfeier di Hölderlin, il Prometheus unbound di Shelley, la Bouteille à la mer di Vigny), ma addirittura, a mio avviso, la poesia piú grande degli ultimi due secoli, la piú significativa per la problematica nascente del mondo moderno, la piú aperta su di un lungo futuro che tuttora ci coinvolge e ci supera.
Questa altissima valutazione della Ginestra (al culmine di una interpretazione dell’ultimo periodo della poesia leopardiana, da me impostata ventenne sin dal 1934-35 con una tesina universitaria alla Normale di Pisa e con un articolo ricavatone, strutturata piú saldamente nel mio libro del 1947 La nuova poetica leopardiana, poi sviluppata in una ricostruzione dinamica di tutto Leopardi nell’introduzione alla mia edizione di Tutte le opere di Leopardi del 1969 e nel mio volume La protesta di Leopardi del ’73 e su su fino ad oggi) venne a rompere decisamente una lunga tradizione di grave fraintendimento e di mistificazione in chiave «idillica» di tutto Leopardi (pensatore e poeta troppo scomodo ed inquietante nella sua vera realtà per una società bisognosa di «melodie» rassicuranti), e quindi di svalutazione della Ginestra perché giudicata non «idillica», ritenuta un ragionamento in versi o un frammentario assortimento di brani oratorii, discorsivi e di qualche raro squarcio poetico definito appunto di ritorno di «idillio» o di «idillio cosmico». Mentre la Ginestra trovò accoglienza sin entusiastica da parte cattolica (il caso di Ungaretti) ma perché erroneamente, quando non tendenziosamente, letta come un puro e semplice messaggio di «amore cristiano». Proprio in risposta a quest’ultimo grave fraintendimento, per comprendere la vera natura e grandezza della Ginestra occorre anzitutto intendere la direzione delle posizioni ideologiche e morali leopardiane (veicolate dalla sua grande e nuova forza creativa) che sono qui condotte alla loro conclusione estrema, al culmine di una battaglia polemica, in forme originalmente poetiche, contro tutte le ideologie reazionarie o liberalmoderate eticopolitiche e filosofiche dell’età della Restaurazione, fra la Palinodia, I nuovi credenti e l’autentico capolavoro aspramente satirico e polemico dei Paralipomeni della Batracomiomachia, capolavoro e non opera minore come fu valutata fino a quello che in tempi recenti Liana Cellerino ha chiamato «il colpo di scena della folgorante rivalutazione di Binni nel ’47».
La direzione per me (e per altri miei compagni di lavoro) indiscutibile del pensiero leopardiano specie nella sua fase matura ed ultima, è quella di un materialismo razionalistico, complesso ed articolato: dopo la giovanile lunga fase del «sistema» della natura benefica e delle generose, vitali illusioni contrapposte alla raison sterile e sterilizzatrice di ogni spontaneità e grandezza, la ragione è divenuta sempre piú per Leopardi una ragione concreta che demistifica la realtà, la libera dalle «superbe fole» cristiane e spiritualistiche rivelando la vera natura dell’universo e della stessa specie umana. Tutta materia che, nel caso dell’uomo, è «materia che sente e pensa», quella materia pensante che comporta la vacuità dello «spirito» che per Leopardi non è piú che flatus vocis. Donde un antiteismo ribelle e alla fine un deciso ateismo, in opposizione ad ogni pretesa teocentrica, geocentrica, antropocentrica, ad ogni visione provvidenzialistica sia religiosa che «prometeica».
La ragione sempre piú è persuasa delle sue fondamentali verità e insieme sempre piú è capace di autocriticarsi e di porsi nuovi problemi (si pensi alla dolorosa, sublime problematica delle due canzoni sepolcrali con il susseguirsi di interrogazioni, di affermazioni e ancora interrogazioni sul tema bruciante della morte senza al di là e della separazione per sempre fra le persone strette da un profondo vincolo di amore, supremo scelus della natura matrigna) di moltiplicarli con le stesse proprie forze e con quelle inerenti della immaginazione e del sentimento (forze tutte di origine materiale, diremmo adesso, di origine biochimica).
Cosí quella che Leopardi chiamava «la sua filosofia disperata ma vera» combatte a tutto campo la credenza in una vita ultraterrena come quella di una natura dell’uomo creato per la felicità e per la sua perfettibilità. Filosofia, quella leopardiana, fondata sul coraggio della verità (il «nulla al ver detraendo» della Ginestra è il vero blasone araldico di Leopardi) e affermante la fondamentale infelicità, caducità, limitatezza della sorte dell’uomo e della terra («l’oscuro granel di sabbia - il qual di terra ha nome») di cui proprio nella Ginestra gli uomini del suo «secol superbo e sciocco» sono, in maniera impellente, invitati a prendere chiara coscienza. E tale consapevolezza è necessaria e preliminare a quella via ardua e stretta che il Leopardi (vero intellettuale ed eroe del «vero», opposto all’orgoglioso intellettuale spiritualista ed ottimista, rappresentante della sua epoca e, si badi bene, «astuto o folle» e dunque spesso anche collaboratore consapevole delle forze e classi dominanti) propone come unica possibilità di attiva unione fra gli uomini, come unica alternativa alla falsa società fondata sulla forza del potere arbitrario e sul sostegno a questo delle credenze spiritualistiche e religiose.
E tale unica alternativa è la risposta «eroica» di non rassegnazione, di non autocompianto, ma viceversa di resistenza, di difesa contro la natura nemica, che coinvolge necessariamente tutti gli uomini: eroismo è amor proprio rivolto agli altri, al «bene comune», ai «pubblici fati», e cosí si spiega il nesso fra il protagonista della Ginestra, Leopardi, e il simbolo della «odorata ginestra» («i danni altrui commiserando»). E in tal senso non si tratta davvero di un simbolo di «femminilità», di passività e di rassegnazione come alcuni studiosi vorrebbero, e il «vero amore» leopardiano è amore con rigore, e non esclude, anzi richiede severità energica nella lotta per la verità contro gli stolti o interessati intellettuali che fanno regredire il pensiero e celano la verità materialistica ed atea, pessimistica-eroica al popolo cui essa è interamente dovuta. Vero amore fra tutti gli uomini della terra, verità pessimistica, coraggiosamente impugnata contro ogni ritorno e riflusso di spiritualismo e di sciocco ottimismo e che si realizzano in lotta contro la natura ostile e contro quella parte di natura che è radice della malvagità degli stessi uomini («dico che il mondo è una lega di birbanti contro gli uomini dabbene, di vili contro i generosi» afferma Leopardi nel 1° dei Pensieri). Questa lotta, fondata sulla diffusione della verità che può e deve educare il popolo, vale per una prassi sociale interamente alternativa rispetto a quella tradizionale basata sull’«egoismo» (che particolarmente si esaltava già allora nella emergente società borghese) mentre sarà invece democratica, giusta e fraterna la nuova polis comunitaria sorta dall’alleanza di tutti gli uomini contro il «nemico comune».
E questa lotta è tanto piú doverosa quanto piú ardua e difficile, senza nessuna garanzia divina o umana di successo, esposta continuamente alla distruzione anche totale della vita sulla terra, per opera della natura o dello stesso stolto pensare ed agire degli uomini. La massa ingente di pensieri e di proposte etico-civili che gremisce questo testo fondamentale per la civiltà umana (proprio noi ne sentiamo la profonda attualità nel nostro tempo per tante ragioni minaccioso ed oscuro, sotto l’incombere del pericolo nucleare e dei disastri ecologici, fra tanto riflusso di evasione nel privato e del risorgere in nuove forme sofisticate di uno sfrenato irrazionalismo e misticismo e nuovi travestimenti ideologici di sfruttamento dell’uomo sull’uomo) non è un nobile altissimo appello privo di adeguata e coerente forza poetica. Anzi ciò che gli conferisce l’intero suo spessore ideale è proprio la coerente, integrale collaborazione e persino fusione costante fra pensiero e poesia, la sua formidabile, necessaria espressione poetica, originalissima ed eversiva, pessimistica ed «eroica» come la tematica e problematica del suo nerbo etico-filosofico, promossa com’è dalla spinta di una esperienza poetica precedente cosí complessa, e soprattutto dalla nuova «poetica» energica, eroica dell’ultimo periodo leopardiano dopo il ’30 e cosí strutturata in una estrema novità di forme lirico-sinfoniche, di cui qui è impossibile render conto adeguato, ma di cui almeno indicheremo la inaudita pressione del ritmo incalzante come in questa perentoria affermazione della sua personale distinzione da quegli intellettuali in mala fede che adulano il «secol superbo e sciocco» («non io - con tal vergogna - scenderò sotterra; - ma il disprezzo piuttosto che si serra - di te nel petto mio - mostrato avrò quanto si possa aperto»), della costruzione a strofe lunghissime, tentacolari, avvolgenti, con l’uso spregiudicato e nuovissimo di rime, rime interne, assonanze, ossessive ripetizioni di parole, spesso ignote al linguaggio aulico e tradizionale della lirica («fetido orgoglio», «vigliaccamente rivolgesti il dosso» significativamente riprese dal linguaggio aspramente creativo dell’Alfieri delle Satire), sprezzante di ogni décor classicistico. E soprattutto la adozione non casuale - ma promossa dai temi e problemi del pensiero e del comportamento morale - di un linguaggio «materialistico», estremamente fisicizzato, sí che anche i paesaggi desertici e lividi appaiono come un’arida, nuda, scabra, scagliosa crosta terrestre violentemente lacerata dalla stessa forza aggressiva che promuove la direzione aggressiva del pensiero. Mentre le rare immagini di esseri viventi, animali selvatici e repellenti (ad eccezione dell’unica figura umana del «villanello» laborioso che segnala la forza autentica dell’attrazione di Leopardi per le «persone» delle classi subalterne «la cui vita - come scrive in una grande lettera da Roma del 1823 - si fonda sul vero e non sul falso», cioè che vivono «di travaglio e non d’intrigo, d’impostura e d’inganno» come la maggior parte della parassitaria popolazione romana del tempo) sono investite da una violenta deformazione e colte nello spasimo vitalmente degradato del loro movimento sotto la luce ossessiva e funerea del deserto vesuviano o delle rovine scheletrite e allucinanti di Pompei: «dove s’annida e si contorce al sole – la serpe e dove al noto - cavernoso covil torna il coniglio», «e nell’orror della secreta notte - per li vacui teatri, - per li templi deformi e per le rotte - case, ove i parti il pipistrello asconde».
Contro ogni vecchia e nuova operazione distinzionistica esercitata sulla Ginestra, si oppone l’enorme forza vitale, l’eccezionale ampiezza di respiro ideale, morale e poetico, la forza del ritmo incessante (che è della poesia e del pensiero inseparabilmente) che non permette se non a «tecnici» senza senso di pensiero e di poesia, di operare distinzioni entro quell’unitaria e dinamica specie di colata lavica che di per sé comanda uno spregiudicato e adeguato modo di lettura critica certo agevolato, per uomini del nostro secolo, da alti esempi di poesia e arte disarmonica ed aspra (si pensi al Montale di Ossi di seppia, alla musica del Wozzek di Alban Berg, alla Guernica di Picasso , all’Alexander Nevskji, Ottobre di Ejzenstejn, per stare ad esempi fin troppo ovvii). Basti portare almeno un esempio di tale forza trascinante unitaria: la citazione della strofe quinta, in cui la sequenza formidabile della colata della lava del Vesuvio e dei suoi effetti distruttivi è appoggiata al paragone con il formicaio distrutto dalla caduta di «un picciol pomo» (si ripensa alla finale meditazione di Julien Sorel in attesa della ghigliottina, con il paragone della casualità della sorte umana e quella del formicaio investito e distrutto dallo scarpone ferrato del cacciatore in corsa dietro la sua preda nel quasi contemporaneo Le rouge et le noir di Stendhal) ed è tanto altamente e intensamente poetica quanto valida a certificare la verità della miseria e debolezza degli uomini assimilati alle formiche nell’eguale esposizione alle casuali catastrofi naturali.
Come d’arbor cadendo un picciol pomo,
Cui là nel tardo autunno
Maturità senz’altra forza atterra,
D’un popol di formiche i dolci alberghi,
Cavati in molle gleba
Con gran lavoro, e l’opre
E le ricchezze che adunate a prova
Con lungo affaticar l’assidua gente
Avea provvidamente al tempo estivo,
Schiaccia, diserta e copre
In un punto; cosí d’alto piombando,
Dall’utero tonante
Scagliata al ciel profondo,
Di ceneri e di pomici e di sassi
Notte e ruina, infusa
Di bollenti ruscelli,
O pel montano fianco
Furiosa tra l’erba
Di liquefatti massi
E di metalli e d’infocata arena
Scendendo immensa piena,
Le cittadi che il mar là su l’estremo
Lido aspergea, confuse
E infranse e ricoperse
In pochi istanti: onde su quelle or pasce
La capra, e città nove
Sorgon dall’altra banda, a cui sgabello
Son le sepolte, e le prostrate mura
L’arduo monte al suo piè quasi calpesta.
Non ha natura al seme
Dell’uom piú stima o cura
Che alla formica: e se piú rara in quello
che nell’altra è la strage,
Non avvien ciò d’altronde
Fuor che l’uom sue prosapie ha men feconde.
Di questo supremo messaggio del Leopardi si poteva già trovare, fra le altre, una notevole traccia di parziale anticipazione in un pensiero dello Zibaldone del 13 aprile 1827, i cui stessi contenuti sono ben significativi per la tensione di Leopardi verso una nuova civilizzazione e una nuova umanità comunitaria: tensione che è come un filo rosso che si intreccia a tanti altri fili della folta matassa leopardiana fino al suo predominio nell’ultima fase del suo pensiero e della sua poesia: «Congetture sopra una futura civilizzazione dei bruti, e massime di qualche specie, come delle scimmie, da operarsi dagli uomini a lungo andare, come si vede che gli uomini civili hanno incivilito molte nazioni o barbare o selvagge, certo non meno feroci, e forse meno ingegnose delle scimmie, specialmente di alcune specie di esse; e che insomma la civilizzazione tende naturalmente a propagarsi, e a far sempre nuove conquiste, e non può star ferma, né contenersi dentro alcun termine, massime in quanto all’estensione, e finché vi siano creature civilizzabili e associabili al gran corpo della civilizzazione, alla grande alleanza degli esseri intelligenti contro alla natura e contro alle cose non intelligenti. Può servire per la Lettera a un giovane del ventesimo secolo». La Ginestra può leggersi anche come la realizzazione suprema di questa Lettera a un giovane del ventesimo secolo, mai stesa, ma vivamente pensata: messaggio, quello della Ginestra, che è, sulla asserita, amarissima realtà della sorte degli uomini tutta e solo su questa terra, tanto piú l’invito urgente ad una lotta per una attiva e concorde prassi sociale, per una società comunitaria di tutti gli uomini, veramente libera, «eguale», giusta ed aperta, veramente e interamente fraterna: lotta il cui successo non ha nessuna garanzia e che è tanto piú doverosa proprio nella sua ardua difficoltà.
Ed ogni lettore che abbia storicamente e correttamente compresa la direzione delle posizioni leopardiane (anche se personalmente non le condivida interamente) non può comunque uscire dalla lettura di questo capolavoro filosofico ed etico, inscindibilmente poetico, senza esserne coinvolto in tutto il proprio essere, senza (per usare parole leopardiane) «un impeto, una tempesta, un quasi gorgogliamento di passioni» (e non con l’animo «in calma e in riposo») che è appunto per Leopardi il vero effetto della grande poesia.
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