25.7.11

Povera Italia. Non c'è più la colla (di Raniero La Valle)

Dal sito di Raniero La Valle, un tempo senatore della Sinistra Indipendente eletto nella mia Agrigento, espressione di un cattolicesimo democratico pieno di respiro sociale, recupero questo articolo breve e sugoso postato il 23 luglio 2011, bilancio di vent'anni per i compagni che titubano. (S.L.L.)
Era cominciata con uno slogan baldanzoso, ottimistico, allegro, “Forza Italia”, che evocava gioie e vittorie, un po’ come la “gioiosa macchina da guerra” del Grande Distruttore Occhetto, e finisce con una esclamazione amara, che sta sulle bocche di tutti, in patria e all’estero, sui giornali e nelle Cancellerie, ed evoca frustrazione, dolore, sconfitte: “Povera Italia!”
L’Italia è diventata più povera nel lungo ciclo berlusconiano, le cui ultime convulsioni, ancora dettate dalla protervia e dall’arroganza di chi in nessun modo vuole lasciare un potere che più non gli compete, riempiono le cronache politiche, giudiziarie ed economiche di queste settimane estive. Ma questa povertà non è solo di denaro, non è solo delle famiglie, delle imprese, dei giovani che vedono isterilirsi il futuro. È una povertà più profonda. Sono le speranze che sono venute meno, è il senso di appartenenza a una stessa comunità politica che sembra perduto, a favore di quella lotta di tutti contro tutti che nell’attuale politica ha il suo modello ed il suo paradigma; è la stima in quanti rendono un servizio pubblico che è entrata in crisi, e non perché essi rubino (la maggior parte non lo fa) ma perché non pensano per niente al pubblico, e perché è passata l’idea che il servizio pubblico – dal capo del governo al funzionario che sta allo sportello – non è che uno dei modi per provvedere ai propri interessi privati. Né la cultura (è stata proclamata la morte di tutte le culture novecentesche) né l’etica (distrutta dal moralismo ed esaurita in pure e semplici petizioni di principio) sono più in grado di esercitare una funzione aggregante: “non c’è più la colla”, diceva già Giuseppe Dossetti.
In tutto questo l’Italia ha cessato di essere felice. Problemi ne ha sempre avuti, ma mai aveva perso il gusto della vita, la gioia di parlarsi, di stare in relazione. Naturalmente non si può dare la colpa al governo, alla maggioranza, alla Confindustria, alla Fiat, alle regioni, alla politica se la gente non è felice. La felicità la politica non la può dare, né gliela si può chiedere senza perdere la libertà. Però l’uomo ha il diritto innato di cercare la felicità (lo diceva anche la Dichiarazione d’indipendenza americana), e compito della Repubblica, come dice la Costituzione al suo articolo 3, è di rimuovere gli ostacoli che di fatto impediscono di perseguirla; le effettività dei diritti, al lavoro, allo studio, alla salute, alla casa, non sono la felicità ma sono le vie per cercarla.
L’ideologia della destra al potere in regime bipolare ha radicalmente e in via di principio negato questo ruolo della Repubblica; lo Stato minimo, lo Stato che pezzo per pezzo smonta l’edificio della sicurezza sociale, lo Stato che non mette le mani in tasca ai cittadini ricchi e quelli poveri li manda a mani vuote, non fa spazio alla società, la abbandona. E se poi propone dei modelli di felicità, questi sono miserandi. Per il partito di Berlusconi la felicità sta nel non pagare le tasse, nell’avere giudici rattrappiti perché si possa più facilmente delinquere avendo buoni avvocati, sta nella modalità consumistica del vivere e nella esclusione dal messaggio mediatico e televisivo di ogni traccia di informazione e di cultura; per la Lega nord la felicità sta nella sicurezza, nell’egoismo di razza e di nazione, nella cancellazione dello straniero, e in quel federalismo che consista nel non far uscire i soldi dal Nord e portarvi almeno due ministeri dal Sud.
Sarebbe sbagliato attribuire questo sfacelo a una forza del destino, a un improvviso degrado dello spirito italiano, a un inopinato rovescio economico. L’Italia è stata sciupata con lucida determinazione, anno dopo anno, a partire dalle prime riforme elettorali, a partire dai tentativi di mettere sotto controllo la magistratura prima ancora di Tangentopoli, a partire dai primi attacchi al principio della rappresentanza, a partire dalla pretesa, avanzata già da Cossiga, di liquidare l’impianto costituzionale del ’48 per dar luogo a una seconda Repubblica cesarista ed extraparlamentare.
È un miracolo che dopo vent’anni il lungo lavoro eversivo non sia giunto a compimento, che grandi risorse di democrazia e di solidarietà siano ancora presenti nel Paese, e che la Costituzione possa ancora essere salvata. Ma deve esser chiaro che di questo si tratta quando si discute di bipolarismo, di referendum elettorali, quando, nonostante la prova fallimentare del nuovo sistema, si dice che “non si può tornare indietro”, quando sotto il pretesto di tagliare i costi della politica, si vogliono in realtà abolire i costi della democrazia e quando a sinistra si insiste sulla sciagurata “vocazione maggioritaria” del partito pigliatutto per rendere eterni i governi.
Quella che dobbiamo fare non è una scelta alchemica tra quel tanto di maggioritario o di proporzionale che dovrebbe avere il nuovo sistema elettorale, in un solo turno o due turni, è una scelta di civiltà e di rilegittimazione politica.

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