Ante Pavelic, capo degli "ustascia" e del governo filonazista della Croazia con l'arcivescovo cattolico di Serajevo Ivan Seric, suo grande estimatore |
Una recensione che è anche un bell’esempio di divulgazione storiografica e polemica politica. Vi si ritrovano gli elementi di informazione per farsi un’idea sul ruolo degli ustascia nella Croazia e nella Yugoslavia della seconda guerra mondiale, ma anche sul ruolo e peso del cattolicesimo, del suo clero e delle sue gerarchie, nelle azioni di sterminio da costoro condotte al fianco dei nazi-fascisti. E vi si trovano – con un ruolo non propriamente positivo – figure che sono oggi oggetto di venerazione: Indro Montanelli facile alle infatuazioni e, forse, alle marchette; papa Wojtila disposto per fervore anticomunista a canonizzare prelati indecenti; Andrea Riccardi, rappresentante nel governo italiano della Comunità di Sant’Egidio, incline nel ruolo di storico pietosi occultamenti delle verità scomode. Si ricordi il pio ministro, amico di Paglia e di Impagliazzo, che non si pecca solo in pensieri, parole e opere, ma anche e soprattutto in omissioni. (S.L.L.)
Crocifisso, coltello, pistola e bomba a mano: i simboli degli ustascia sui quali i nuovi adepti prestavano giuramento |
Nel settembre 1941 il Resto del Carlino pubblicò alcuni articoli di Corrado Zoli, giornalista autorevolissimo, che era stato anche governatore dell’Eritrea. Riguardavano la Croazia. Impressionanti.
Uno in particolare, del 18, noto da tempo, inquadrato ora grazie al libro La via dei conventi di Pino Adriano e Giorgio Cingolani, appena pubblicato da Mursia (ben 614 pagine, € 20,00), risulta ancor più notevole. Zoli riferiva le parole di un ufficiale nazista sulle stragi che venivano perpetrate da intere «bande di massacratori», talvolta «capeggiate e infiammate da sacerdoti e monaci cattolici». I monaci erano francescani e Zoli aggiungeva: «Uccidono le persone innocenti, seppelliscono i vivi e buttano i morti nei fiumi, nel mare, negli abissi». E, si noti, si era in piena guerra e il giornale era fascista. Solo l’ultima, imbarazzante, frase venne tagliata, ma nell’ultima edizione del giornale.
Adriano e Cingoli sono due bravi storici non accademici. Qualche anno fa hanno scritto un bel libro sugli anni di piombo, Corpi di reato (Costa & Nolan, 2000). La via dei conventi è un grande racconto su cosa fu il movimento croato degli ustascia (che significa «insorti»). Si basa su diversi documenti inediti (anche croati e serbi; si segnalano quelli provenienti dall’archivio dell’esercito italiano).
Si parte dalla nascita del gruppo negli anni venti, con l’avvocato Ante Pavelic come «Poglavnik», capo. Racconta poi la protezione e le sovvenzioni del fascismo, l’uccisione del re Alessandro Karadordevic (1934), la fondazione durante la guerra (1941) di uno stato croato semi-indipendente, i massacri. E si giunge, nel dopoguerra, alla fuga in Europa e Sudamerica, con l’appoggio delle organizzazioni cattoliche e americane. Sono cinquant’anni di storia grondante di morti, stragi, malversazioni (gli Ustascia trafugarono il Tesoro croato), ferocia gratuita.
In altre parole, questo libro ricostruisce il collaborazionismo croato con i nazi-fascisti ed è un pezzo della storiografia emersa negli ultimi vent’anni sui paesi ex-comunisti (oltre alla Croazia, la Lituania, la Polonia, l’Ucraina, l’Ungheria). Non sempre si tratta di lavori seri. Questo lo è, e non esita a fare anche riferimento alla recente storiografia revisionista croata su questi argomenti. I due autori illuminano soprattutto la caratteristica di fondo del collaborazionismo croato: la sua ossessione identitaria e religiosa, cioè cattolica. Anche in Jugoslavia ci furono deportazioni e massacri a sfondo razziale, contro ebrei e zingari. La stessa legge sulla «nazionalità croata» del 30 aprile 1941 copiava quelle tedesche, perché parlava di razza. Ma poi si applicava, oltre che agli ebrei, ai serbi (che pure erano «ariani» come i croati) proprio per la loro religione. In quel paese di gran lunga prevalse l’odio del cattolico verso il greco-ortodosso, che era serbo. Numerosi (più di un centinaio, pare) furono, come raccontò Zoli, i preti e i frati che si misero alla testa dei massacri.
Mussolini stesso, in una conversazione, irritato col Poglavnik, parlò della sua «impolitica ostinazione di voler sopprimere due milioni di ortodossi». I massacri mettevano in difficoltà gli italiani (come i tedeschi) con le popolazioni locali e ciò spiega l’irritazione del duce e forse perfino gli articoli di Zoli.
Alla fine i morti ortodossi non furono due milioni come diceva Mussolini. Stando alle stime più attendibili, discusse dai due autori, furono 322-334mila. Gli ebrei uccisi furono 26mila (19mila nello stato croato, 7000 deportati in Germania) e 19mila i Rom. I croati (per lo più oppositori) e i musulmani uccisi furono, rispettivamente, 13mila e 7mila. Le cifre rendono bene l’idea di un massacro a sfondo religioso-politico. E movimentano la visione di uno sterminio solo «ebraico» durante la seconda guerra mondiale. Siamo lontani naturalmente dalla contabilità enorme della Shoah dei milioni di morti.
Ma si vede anche come, andando ad analizzare i casi locali, si debba essere cauti e aperti. Sul grande massacro «razziale» della Shoah si innestarono molti motivi, fra cui quello appunto religioso, associato all’odio interetnico. È un groviglio davvero complesso. Viene da dire, pensando anche all’oggi: sono pur sempre i Balcani, bellezza.
Ma torniamo agli articoli di Zoli. Meno di un anno dopo i suoi pezzi sul Resto del Carlino, nel luglio 1942 un altro giornalista italiano si recò in Croazia. Si chiamava Indro Montanelli ed era inviato del “Corriere della Sera”. Tra il 5 e il 15 di quel mese pubblicò quattro articoli sul nuovo stato alleato degli italiani. Uno di questi era dedicato al famigerato campo di concentramento di Jasenovac ed è piuttosto noto – viene discusso a lungo, ad esempio, nella biografia del giornalista di Sandro Gerbi e Raffaele Liucci. La contabilità delle stragi oggi dice che in quel luogo furono uccise almeno 146 mila persone, perfino con l’uso di un forno crematorio, distrutto un mese prima della visita del giornalista italiano. Montanelli, idilliaco, fornì una descrizione di quell’incubo come di un posto dove si badava a lavorare, senza tanti grilli per la testa e – soprattutto – senza morti.
Oggi, avendo davanti questo libro e i suoi documenti, tra quei pezzi di Montanelli a colpire non è tanto l’articolo su Jasenovac. Sono soprattutto gli altri, in cui Montanelli parlò in tono entusiasta della Croazia cattolica: «C’è un’indiscutibile unità razziale», scrisse Montanelli, «una compatta maggioranza religiosa cattolica, un uniforme livello di vita, una lingua quasi senza dialetti». Per cui era giustificato anche il passaggio successivo: «Fra gli ortodossi si svolse un’attiva campagna per la loro conversione al Cattolicesimo. Questa campagna diede i suoi frutti: di conversioni ce ne furono parecchie decine di migliaia». Anche qui neanche una parola sui morti, naturalmente. Anzi, quegli articoli sembrano una risposta ottimista proprio ad articoli come quelli di Zoli sulle stragi.
A proposito di giornalisti elusivi, Adriano e Cingolani portano alla luce un altro articolo rilevante proprio su Pavelic. È un’intervista che gli fece un giornalista interessante e poco noto, Deodato Foà. Fu pubblicata l’11 ottobre 1952 da «Epoca» (allora diretta da Arnoldo Mondadori in persona). Sotto il fascismo Foà era stato redattore della torinese “Gazzetta del Popolo” e direttore del giornale degli ebrei fascisti «La nostra bandiera». Nel dopoguerra, in Sudamerica (dove si erano rifugiati anche i gerarchi ustascia), lavorò come corrispondente dell’Ansa.
L’intervista fa un unico cenno ai massacri, ma a proposito di ebrei: Pavelic, scrisse Foà, «desidera solo smentire nel modo più assoluto di avere approvato la politica razziale e di avere avuto parte nei delitti contro gli ebrei». Ormai, e da tempo, il Poglavnik era stato dichiarato criminale di guerra internazionale. Fu uno scoop, ma ai massacri degli ortodossi non fece neanche un cenno.
Un’ultima osservazione. Molti ricordano l’avvenimento drammatico che fu la beatificazione del cardinale croato, Alojzije Stepinac, compiuta da Giovanni Paolo II a Zagabria il 3 ottobre 1998. Arcivescovo a Zagabria con gli Ustascia, Stepinac si era compromesso in pieno col regime di Pavelic. Eppure Wojtyla andò dritto allo scopo di mettere sugli altari questo uomo discutibile perché era stato perseguitato dal comunismo. Ancora oggi, nel suo pur notevole libro su Giovanni Paolo II (ed. San Paolo, 2011), Andrea Riccardi tralascia quella beatificazione.
Di tutto questo, pare proprio sia tuttora piuttosto difficile riuscire a parlare.
“alias” 16 luglio 2011
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