Quello che segue è un
ampio stralcio dall'articolo, a mio avviso informato, acuto e
stimolante, di Maria Teresa Carbone su “Pagina 99”. Ne consiglio
vivamente la lettura, come consiglio la lettura del settimanale,
sempre pieno di approfondimenti critici. (S.L.L.)
Johnjoe McFadden |
A Johnjoe McFadden, docente di genetica molecolare all’Università del Surrey, va riconosciuto per lo meno un gran coraggio. Qualche giorno dopo l’annuncio del via libera dato dalla britannica Human Fertilisation and Embryology Authority all’uso, a scopo di ricerca, del genome editing su cellule embrionali umane, McFadden – sfidando le possibili ire celesti e le sicure critiche terrene – ha scritto un articolo sul “Guardian”, dal titolo chiaro: «L’editing genomico è come giocare a essere Dio, e cosa c’è di male?». Ancora più chiaro il contenuto: «Dio, la natura o le agenzie che ci hanno fabbricato possono avere preso delle cantonate e tocca a noi ripararle».
Frasi audaci, non solo perché sembrano l’espressione massima della hybris, l’arroganza umana che, secondo gli antichi Greci, non poteva non scatenare la collera divina – ma forse anche di più per il contesto in cui si inseriscono. Un contesto dove, parlando di editing genomico, il pensiero non corre soltanto ai bambini (in Italia il 3%, circa 10 mila neonati) che vengono al mondo ogni anno con malformazioni e malattie genetiche e per i quali il genome editing potrebbe, come scrive McFadden, «portare vantaggi rivoluzionari», ma anche al continuo flusso di notizie che rivelano una idea della genetica legata a un desiderio neppure troppo nascosto di perfezione vera o presunta.
Frasi audaci, non solo perché sembrano l’espressione massima della hybris, l’arroganza umana che, secondo gli antichi Greci, non poteva non scatenare la collera divina – ma forse anche di più per il contesto in cui si inseriscono. Un contesto dove, parlando di editing genomico, il pensiero non corre soltanto ai bambini (in Italia il 3%, circa 10 mila neonati) che vengono al mondo ogni anno con malformazioni e malattie genetiche e per i quali il genome editing potrebbe, come scrive McFadden, «portare vantaggi rivoluzionari», ma anche al continuo flusso di notizie che rivelano una idea della genetica legata a un desiderio neppure troppo nascosto di perfezione vera o presunta.
Ancora nel Regno Unito,
nelle ultime settimane del 2015, ha sollevato un grosso dibattito sui
media la rivelazione che la London Sperm Bank, la più grande banca
del seme britannica, aveva adottato una regola in base alla quale i
donatori dislessici non erano ammessi. «Secondo questo criterio
anche Einstein sarebbe stato bocciato», ha dichiarato alla stampa
Fred Fisher, trentenne laureato a Oxford, che per la sua dislessia
non aveva avuto accesso alla donazione. E subito sulla clinica
londinese è piovuta una tale quantità di critiche, anche molto
autorevoli, che la decisione è stata rapidamente rimangiata.
Ma quante sono le persone
che, in cerca di un padre o di una madre per i loro figli a venire –
genitori sconosciuti eppure con un Dna ben concreto –, li
selezioneranno dislessici o anche, più banalmente, bassi o con il
naso storto, in omaggio al valore della diversità? Difficile
saperlo. Quello che è certo è che, a giudicare da bacheche online
come co-genitori.it, i requisiti richiesti più di frequente, almeno
in Italia, sono una buona salute non solo dichiarata a parole, ma
attestata da analisi del sangue fatte di recente, un aspetto
gradevole e dove possibile, a mo' di referenze, «molte donazioni
andate a buon fine», come scrive orgogliosamente di sé un anonimo
genovese (che vanta anche al suo attivo due figlie avute,
presumibilmente, con il sistema tradizionale).
I casi di donatori di
“fascia superiore” – giovani, alti, sani, magari laureati con
buoni voti – e quindi molto richiesti (difficile resistere alla
tentazione di chiamarli donatori alfa) sono frequenti. Deriva in
larga parte dal fascino dell’uomo nordico, biondo, slanciato e con
gli occhi chiari, il successo internazionale delle banche del seme
danesi, ma gli esempi si registrano in diversi Paesi: a fine gennaio,
per esempio, su “TeenVogue” è stata pubblicata la testimonianza
di una ragazza americana che, andata alla ricerca del padre, ha
scoperto di avere addirittura 22 tra fratelli e sorelle, tutti come
lei provenienti da donazioni.
Non a caso nel 2015 sulla
rivista Reproductive Medicine è uscito uno studio guidato
dall’olandese Pim Janssens sull’opportunità o meno di limitare
la quantità di prole per donatore. La ricerca non ha dato una
risposta definitiva, lasciando aperto il confronto fra considerazioni
di tipo genetico (e allora non ci sono obiezioni a un tetto che
potrebbe raggiungere, e addirittura superare, le 200 donazioni) – e
valutazioni di ordine psicosociale (e in questo caso si parla di un
massimo auspicabile di 10 famiglie per donatore).
Ecco, il limite: un
concetto sovente evocato in questo ambito, ma che rischia di
fluttuare pericolosamente quando si passa dall’astrazione delle
idee alla concretezza delle azioni. «Non tutto ciò che è possibile
è lecito», ammonisce il filosofo Remo Bodei che ha appena
pubblicato un piccolo libro intitolato appunto Limite (il
Mulino 2016, pp. 124, euro 12). E che, interpellato da “pagina99”,
sostiene che «manipolare il Dna degli embrioni umani per evitare che
nascano con malattie o malformazioni evitabili non significa giocare
a essere Dio, perché altrimenti ogni cura andrebbe contro la volontà
sua o della natura che ha provocato la malattia». Al tempo stesso,
però, continua Bodei, «ci dovrebbe essere una riflessione
approfondita che stabilisca regole precise e non si dovrebbe
intervenire per selezionare presunte “razze superiori” o per
avere figli perfetti con determinate caratteristiche (per esempio, il
colore degli occhi e cose simili). Né si dovrebbero fornire le
prestazioni di intervento sugli embrioni solo ai ceti privilegiati
dei Paesi ricchi».
Che manchino regole
condivise a livello internazionale, è indubbio. In un mondo dove,
grazie alla rete, le informazioni circolano più o meno liberamente,
ogni Paese si ritrova con codici propri, diversi da quelli del
vicino. E non soltanto sul piano della ricerca, ma su quello della
pratica quotidiana.
Negli Stati Uniti, per
citare un solo esempio, è possibile e riconosciuto legalmente –
per una cifra che, a proposito di ceti privilegiati e di Paesi
ricchi, si aggira intorno ai 15 mila dollari – determinare il sesso
del nascituro (la cosiddetta sex selection). Una opzione invece
negata, a dispetto di leggi ben più aperte di quelle vigenti in
Italia, ai cittadini britannici, canadesi o australiani che per
questo a centinaia ogni anno scelgono di compiere “viaggi della
fertilità” negli Usa.
«Tocca alla società
civile definire i parametri all’interno dei quali ci dobbiamo
muovere: la scienza non va bloccata, ma va controllata, tenendo a
mente il caso dell’energia nucleare. E per questo è necessaria una
corretta informazione», riflette Domenico Coviello, direttore di
genetica umana degli ospedali Galliera di Genova. Gli fa eco Baroukh
Maurice Assael, ex docente di Pediatria all’Università di Milano e
direttore del Centro Fibrosi Cistica di Verona, di cui Bollati
Boringhieri ha da poco mandato in libreria Il gene del diavolo. Le
malattie genetiche, le loro metafore, il sogno e la paura di
eliminarle (pp. 186, euro 15): «Bisogna che si crei il terreno
di fondo, cioè che si diffonda una alfabetizzazione genetica, quella
che in inglese si chiama genetic literacy. Le conoscenze
biologiche e genetiche dovrebbero essere oggetto di una divulgazione
ampia e seria, e far parte, più di quanto avvenga adesso, dei
programmi scolastici. Altrimenti il rischio è che finisca per
prevalere un’offerta di esami e di prestazioni diretti al singolo,
attraverso circuiti che sfuggono a ogni controllo, primo fra tutti
internet». Già oggi, navigando in rete, constata Assael, «vediamo
come esista un’immensa offerta di test genetici, naturalmente a
pagamento, sui quali non è possibile esercitare nessuna verifica.
Potrebbero allo stesso modo essere resi disponibili “organismi
viventi” per le colture e forse in futuro anche terapie per l’uomo.
In un quadro simile l’autoregolazione degli esperti è
fondamentale, ma la discussione deve essere ampia e non limitata
all’ambito specialistico. A stabilire il limite è il dibattito
sociale, non i laboratori. Il confronto di sensibilità etiche
diverse, non le imposizioni».
In questo contesto i
media giocano un ruolo essenziale e hanno grandissime responsabilità.
Quanto incidono sulla dilagante fede nelle possibilità della
genetica gli articoli e le notizie che ci informano sulla scoperta
pressoché quotidiana di un nuovo “gene”, che determinerebbe la
voglia di viaggiare o la tendenza alla paura, la timidezza o la
violenza?
«In Italia», commenta
Letizia Gabaglio, fondatrice nel 2004 della media company di
divulgazione scientifica Galileo, «la comunicazione della scienza
oscilla spesso fra paternalismo e sensazionalismo, senza trovare una
cifra equilibrata, per intenderci come quella dei Paesi anglosassoni.
Una difficoltà che è figlia del ruolo marginale a cui vengono
relegate la scienza e la ricerca, dell’analfabetismo scientifico
diffuso, anche fra gli operatori della comunicazione. È vero:
l’esigenza di produrre un titolo, di alzare una polemica a volte
prende il sopravvento sull’esigenza di spiegare. Ma il vero
problema è che in Italia di scienza – qualsiasi sia il tono usato
– si parla ancora poco».
Forse per bilanciare i
sensazionalismi, paradossalmente (ma non troppo) sono proprio i
genetisti a smorzare gli entusiasmi riguardo agli effetti miracolosi
dell’editing genomico: «Negli ultimi dieci anni», spiega Domenico
Coviello, «si sono fatte scoperte estremamente importanti che
confermano certe intuizioni di Freud e d’altro canto mostrano come
la salute dell’individuo sia inseparabilmente legata alle
condizioni ambientali e quindi alla salute della società. Quella
parte del Dna (quantitativamente la più rilevante) che fino a non
molto tempo fa veniva bollata come junk, “spazzatura”,
perché non produce proteine, rivela oggi il proprio ruolo
determinante. Si tratta in sostanza di regolatori, o se preferiamo di
interruttori, che accendono e spengono tratti della sequenza e che
reagiscono in base alle influenze esterne, si tratti di un trauma
infantile o di una piacevole nenia, una ninnananna, un rosario o una
preghiera buddista».
Come dire che i
sentimenti e le sensazioni contano quanto (o più) dell’anamnesi
familiare. È d’accordo Bodei che, citando il neurofisiologo
Lamberto Maffei, ricorda come «con il formarsi nel nostro cervello
di una rete neurale, diversa per ogni individuo, natura e cultura
diventino a una certa età indistinguibili».
Giorno dopo giorno il
nostro corpo si impasta con gli amori, le simpatie, le paure e le
inimicizie, che noi proviamo. Resta da capire se saremo pronti, come
individui e come specie, a esporci ancora ai rischi della vita, a
innamorarci di persone che forse non avremmo mai pensato di
scegliere, ad accettare che i nostri figli siano diversi da quelli
che avremmo voluto.
Da “Pagina 99”, 27
febbraio 2016
Nessun commento:
Posta un commento