Italo Calvino, in una
delle sue Lezioni americane, lamentava lo stato di confusione,
di incertezza, di vero e proprio frastornamento, in cui siamo
continuamente travolti dalla comunicazione mediatica (e non soltanto
mediatica). Considerandolo un male esiziale, lo chiamava la peste
del linguaggio. Riteneva urgente una cura avverso a questa
epidemia e suggeriva la corretta terapia preventiva: «La letteratura
(e forse solo la letteratura) può creare degli anticorpi che
contrastino la peste del linguaggio».
Perché la letteratura?
In un tempo, in cui, fra tanti conflitti, ivi compresa una sciagurata
«guerra preventiva», è del tutto assente una benefica rivolta
dei libri - alludo alla suggestiva immagine di Swift (The
battle of books), nella quale si scorgono i libri volare via
dagli scaffali di una biblioteca e precipitare addosso a un lettore
che li ha trascurati per troppo tempo - la risposta è insieme banale
e intrigante. Banale, certamente, perché non c'è dubbio che una
maggiore frequentazione della buona letteratura, praticata non solo
dal pubblico, ma anche da tanti nostri scrittori, indurrebbe a pulire
gli strumenti per comunicare. Intrigante, però, perché il comune
lettore, anche attentissimo alle mille pieghe di un testo letterario,
è troppo coinvolto nel quotidiano per transitare dalla chiarezza e
dal nitore di un bel libro a un contesto, quello della sua e altrui
esistenza, in cui si attendono «risposte tagliate sul bisogno»,
tali, perciò, da imporre discorsi essi stessi immediati e
inevitabilmente superficiali.
Il grande scrittore
denunciava la presenza di un morbo dilagante e credeva di proporne la
cura. Ma il suo era, a ben riflettere, non molto diverso da un grido
di dolore. Del resto, proprio Calvino soffrì, specie
negli ultimi anni, di un costante fraintendimento, patologia tipica
del linguaggio, la cui espressione più nota fu la sua polemica con
Pier Paolo Pasolini. Dobbiamo questo ricordo del grande scrittore a
due studiosi di Bari, Augusto Ponzio e Susan Petrilli, che, insieme a
un foltissimo gruppo di studiosi, italiani e stranieri, di diversa
estrazione disciplinare, saranno presenti a Spoleto (Chiostro di San
Nicolò) al XXXII congresso dell'Associazione italiana di studi
semiotici. Il congresso, sponsorizzato da diverse istituzioni e da
due università (Palermo e Perugia) e organizzato dalla Fondazione
Sigma Tau di Roma, inizia oggi e terminerà il 1 novembre. Tema: «Il
discorso della salute». E' giusto che a occuparsene siano i
semiotici (interverranno, tra gli altri, Umberto Eco, Alberto
Abruzzese, Paolo Fabbri, Omar Calabrese, Gianfranco
Marrone, Jacques Fontanille) perché la «salute» è, innanzitutto,
una parola, che rinvia a un concetto, la cui definizione è nel
contempo difficile, per non dire impossibile, ma necessaria. Come
dire: «so che cosa è la salute, ma, se mi chiedi che cosa è, non
lo so più. Tuttavia devo cercare di trovare una definizione magari
imprecisa, ma almeno praticabile. Si tratta di una questione troppo
importante per tutti perché valga la pena di preoccuparsi di chi ci
potrebbe accusare di trastullarci in complicazioni
linguistico-filosofiche, invitandoci a star buoni e ad accontentarci
della definizione di salute fornita dall'Organizzazione Mondiale
della Sanità - l'Oms la chiama, in buona sostanza, `assenza di
malattia', una definizione che, a dir poco, lascia l'amaro in bocca.
Perciò parliamone. Qualcosa verrà fuori». E' quanto si accingono a
fare i congressisti. C'è da scommettere che per molti di loro sarà
anche un divertimento. Specie se parlerà Eco, lo zar di tutte le
semiologie, chi avrà la costanza di seguire l'intero convegno dirà
alla fine «le congrès s'amuse» (il congresso si diverte). Poco
importa, perché tra una divagazione e l'altra, verrà detto molto e
di molto importante. Ma che cosa, in particolare?
Tra lingua e segno
Tra lingua e segno
Leggendo
i numerosissimi abstract del convegno (di cui non è possibile dare
qui un'indicazione anche sommaria) abbiamo individuato tre principali
linee di trattazione: la parola «salute» e i suoi segni;
l'individuazione nell'una e nell'altro della cura per star bene; la
salute, buona o cattiva che sia, come spartiacque tra privato e
pubblico. Cominciamo con la prima.
Nel
sentimento collettivo la parola «salute» rinvia a una condizione
soggettiva di benessere fisico e mentale, le cui spie (sintomi) sono
un buon colorito, un'ottima qualità di vita, un umore buono, una
prestanza fisica e, soprattutto, la percezione personale di sentirsi
bene. A lungo, si può dire sino agli albori della contemporaneità,
sembrava esserci una consonanza assoluta tra questa percezione e i
segni manifesti del corpo: un colorito sano rinviava immediatamente
all'idea di una buona salute. Ma forse, neppure allora, era così.
Se, infatti, l'antico equivalente latino di «salute», valetudo,
sembrava indicare questa alleanza tra soggettivo e oggettivo,
tuttavia, celava un'ambiguità semantica poiché poteva connotare una
patologia: ad esempio l'espressione valetudo
oculorum segnalava una malattia degli
occhi. In realtà, in questo, come in molti altri casi, questa
straordinaria lingua coglieva nel segno. Valetudo
designa, del resto, più precisamente, lo stato generale di salute,
che, se buono, diventa spesso cattivo, il che, in buona sostanza,
invitava medici e pazienti a non fidarsi delle apparenze e a stare
«sul chi vive». Oggi, come ci conferma indirettamente Marrone,
sappiamo che la saggezza latina aveva ragione. Vi sono altri segni
del corpo, invisibili soprattutto per l'interessato, che la
diagnostica strumentale mette in luce. E' forse raro il caso di un
cancro polmonare bilaterale asintomatico (apprezzabile
diagnosticamente senza difficoltà), tale cioè da lasciare nel
malato la sensazione di «star bene»? Ma è, per l'appunto, questo
l'inganno: «sentirsi bene» non è affatto sempre «star bene». Di
qui la necessità di passare dalla parola al segno e di pervenire a
censire tutti i segni (segnali) inviati dal corpo.
Sembra
essere questa un'operazione esclusivamente medica, ma non è così.
Dall'analisi dei contributi dei medici, dei semiologi e da molti
antropologi culturali (ricordiamo, fra tutti, Tullio Seppilli),
emerge un dato culturale di immensa importanza.: la medesima cultura,
che ha dato origine alla medicina scientifica, ha prodotto
l'irruzione delle medical humanities.
In linea di principio, parrebbe esserci un'insuperabile distanza tra
la medicina «dura», ancorata all'accertamento diagnostico
dell'invisibile, e quell'inesausta indagine delle emozioni, che è la
psicoanalisi. Certamente è difficile convincere, ad esempio, un
cardiologo o un urologo, che quanto accerta con l'uso della
diagnostica strumentale può trovare riscontro nel vissuto emozionale
del paziente, ove questo vissuto venga ricostruito nel setting
analitico, in cui «parla l'inconscio». All'inverso è altrettanto
difficile convincere quanti si battono per una neoumanizzazione della
medicina che il regard médical
dello specialista ha una sua ragion d'essere e, per di più, una
ragione squisitamente umanistica, perché rinvia all'antica passione,
altrettanto umanistica, di scoprire l'invisibile, già nutrita da
Malpighi e Morgagni. Il reale ci viene sciorinato con tale luminosità
da richiedere soltanto un po' di coraggio intellettuale per
osservarlo. A questo punto non crediamo che occorra davvero molto,
operando l'alleanza (stavolta davvero santa) tra medicina scientifica
e psicoanalisi, per mettere a punto una grammatica dei segni in cui
venga esplorato un duplice invisibile, la rovina interna del corpo e
l'inconscio.
Le
vie della guarigione
Nella
tradizione sciamanica segni e sintomi non sono solo la facies
manifesta della malattia, ma anche le vie della guarigione, poiché
in essi lo sciamano vede le tracce dello spirito maligno, il che gli
permette di evocarlo e combatterlo. Più spesso, tuttavia, la
kamlanie (la
seduta terapeutica dello sciamano) è soprattutto un processo di
mediazione: il guaritore viene a patti con lo spirito che, a un certo
punto, si dichiara disposto a lasciare il corpo del paziente, a
condizione che gli si conceda qualcosa. Se adottiamo questa
mediazione come una metafora, forse riusciamo a individuare un
aspetto nascosto della malattia. In linea di principio - almeno così
ci dice tutta la tradizione medica occidentale - una patologia è in
prima istanza una reazione,
un segno di vita, se non addirittura la vita stessa, tanto più viva,
quanto più esasperata. E allora, perché non studiarne il suo
svolgersi (come del resto qualunque buon medico fa) per apprestare la
strategia terapeutica, ma, soprattutto per insegnare a chiunque, in
particolare al comune malato, non tanto a vivere con la malattia,
quanto a studiarla come chiave di decifrazione del vissuto?
Spartiacque
tra pubblico e privato
Uno
speciale aspetto dello stato di una persona, che versi in «cattiva
salute», è di trovarsi contemporaneamente in tre distinte
dimensioni, quella della malattia oggettivamente riscontrata (che ha
un interesse prevalentemente medico), quella del «sentirsi male» e
quella, infine, dell'esser visto e contattato da tutti gli altri come
«malato». Tra le lingue moderne, la sola che le definisce con
chiarezza, individuando una parola giusta per ciascuna di esse, è
l'inglese. La prima dimensione è la disease,
la seconda la illness,
la terza la sickness.
Il primo e il terzo vocabolo rinviano alla percezione altrui, il
secondo ovviamente a uno stato soggettivo. A prima vista, questa
distinzione investe unicamente il mondo delle emozioni. L'individuo
in sickness
desta sentimenti contrastanti, pietà, compassione, ma anche
ripugnanza e paura (nettissima nel caso di disordini mentali) e, per
quanto concerne il medico che tratta il soggetto in disease,
i suoi affetti possono oscillare tra una benevolenza blanda e una
sostanziale indifferenza. In realtà il problema che coinvolge tutti
i soggetti interessati è anche e soprattutto un problema di
comunicazione, fondamentale perché da una buona comunicazione spesso
dipende l'esito della cura. Si tratta, perciò, di una questione
cruciale che, comunque, non può essere affrontata con la semplice
buona volontà. Riguarda, infatti, la preparazione del medico, anche
e soprattutto linguistica (nel senso ampio dell'aggettivo, perché
gli richiede la conoscenza di tutti i segni e, insieme,
l'approntamento di parole e gesti che siano in grado di farlo
comunicare con il malato). Esige, in misura decisa, un'eguale
preparazione dei familiari che non possono essere linguisticamente
atti alla bisogna se educati, come oggi è, in una società sciatta.
A parlare, e già a monte, nel modo giusto, devono essere perciò la
società e le sue istituzioni. A questo punto, il malato può
diventare un'occasione preziosa di crescita collettiva, uno
spartiacque tra pubblico e privato. Alla fine, non vien fatto di
dire: ancora una buona filosofia del
linguaggio, un'avveduta semiotica per il progresso dell'umanità?
“il
manifesto”, 29 ottobre 2004
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