1.3.16

Raccontare la fame (Raffaele Liucci)

Di fronte alla «miseria disperata e inumana del Terzo e Quarto Mondo», ha scritto Norberto Bobbio, «parole come Democrazia, Stato pluralistico, Diritti dell’uomo sembrano perdere qualsiasi significato». Riusciremo mai, noi occidentali satolli, a condividere le sofferenze di chi sconta questa condizione estrema? Ci prova ora lo scrittore argentino Martin Caparrós (La fame, Einaudi, Torino) con un tomo di oltre 700 fitte pagine: un lavoro ricco di brillanti reportage sul campo, ma con troppe glosse, digressioni, arringhe. Un buon libro è fatto anche di lacune ed elisioni, altrimenti diventa un calderone indistinto. Senza contare gli accostamenti talvolta fuorvianti: per esempio, tra la fame sofferta dalla sua bisnonna nel ghetto di Varsavia assediato dai nazisti e la fame “strutturale” che affligge il Kenya o il Sudan.
L’autore rifulge soprattutto quando, dismettendo gli abiti del pamphlettista, esplora le terre flagellate. La fame, lo ammette lui stesso, «non esiste al di fuori delle persone che la patiscono». Gli incontri sono ben cesellati. Aisha, nel profondo Niger, sogna di possedere due vacche, mentre intorno il viso dei bambini denutriti assomiglia a quello di «un vecchietto triste».
I sarti e le modiste del Madagascar, costretti a cambiare mestiere da quando il Paese è stato invaso dagli «abiti dei morti, i resti che l’Occidente ricco manda all’Africa». I disperati argentini, all’assalto dei cumuli di spazzatura nelle discariche. S’alternano gli scenari, ma i protagonisti hanno tutti un tratto in comune: trascorrono i propri giorni domandandosi ogni sera se potranno mangiare l’indomani. Per alcuni il cibo concupito è una palla di miglio, per altri, nei bassifondi della luccicante Chicago, una scatoletta di junk food.
È anche un viaggio attraverso il nostro passato rimosso. Nelle lande africane e asiatiche bistrattate dalla Storia, la vita materiale riecheggia alla lontana quella dell’Europa preindustriale («il mondo che abbiamo perduto» del celebre studio di Peter Laslett). Una vita senza luce elettrica, acqua corrente, WC, riscaldamento, medicinali, densa di rumori e afrori intollerabili ai nostri pregiati sensi. Una vita promiscua, in cui il creato si estende al massimo per qualche chilometro, il tempo libero non è ancora stato inventato e la vecchiaia resta un problema ipotetico, giacché quasi tutti spirano prima di deteriorarsi. Una vita regolata, semplicemente, dalla legge del più forte. Onde il sentimento ambivalente in noi lettori. Caparrós vorrebbe persuaderci dell’oscenità della nostra epoca, in cui la fame non è più dovuta alla mancanza di cibo, bensì alla sua cattiva distribuzione. Eppure, il nostro imperfetto Occidente è stato capace di conquiste dietetiche altrove impensabili.
Le pagine più conturbanti sono riservate alla “teodicea”. L’autore parla con decine di affamati e alla fine pone loro sempre la stessa, inquietante domanda: «Come può Dio aver creato un mondo con così tante persone che non hanno abbastanza cibo?». Nessuno degli intervistati nega la legittimità di un essere superiore: «Dio vuole così, che possiamo farci...»; «i poveri devono pregarlo per avere qualcosa da mangiare»; «questo lo sa solo Lui, non io. Per questo è Dio». L’ateo Caparrós se ne rammarica: «Credevamo di esserci liberati delle religioni. La loro ricomparsa è uno dei colpi più duri di questi anni». Ma come stupirsi se quanti «si destano dal sonno sapendo di non avere più speranza» (Thomas Bernhard), s’illudono di scorgere il senso della vita in un roseo futuro ammannito dal Cielo?


Il sole 24 Ore Domenica, 28 giugno 2015

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