Di fronte alla «miseria
disperata e inumana del Terzo e Quarto Mondo», ha scritto Norberto
Bobbio, «parole come Democrazia, Stato pluralistico, Diritti
dell’uomo sembrano perdere qualsiasi significato». Riusciremo mai,
noi occidentali satolli, a condividere le sofferenze di chi sconta
questa condizione estrema? Ci prova ora lo scrittore argentino Martin
Caparrós (La fame, Einaudi, Torino) con un tomo di oltre 700 fitte
pagine: un lavoro ricco di brillanti reportage sul campo, ma con
troppe glosse, digressioni, arringhe. Un buon libro è fatto anche di
lacune ed elisioni, altrimenti diventa un calderone indistinto. Senza
contare gli accostamenti talvolta fuorvianti: per esempio, tra la
fame sofferta dalla sua bisnonna nel ghetto di Varsavia assediato dai
nazisti e la fame “strutturale” che affligge il Kenya o il Sudan.
L’autore rifulge
soprattutto quando, dismettendo gli abiti del pamphlettista, esplora
le terre flagellate. La fame, lo ammette lui stesso, «non esiste al
di fuori delle persone che la patiscono». Gli incontri sono ben
cesellati. Aisha, nel profondo Niger, sogna di possedere due vacche,
mentre intorno il viso dei bambini denutriti assomiglia a quello di
«un vecchietto triste».
I sarti e le modiste del
Madagascar, costretti a cambiare mestiere da quando il Paese è stato
invaso dagli «abiti dei morti, i resti che l’Occidente ricco manda
all’Africa». I disperati argentini, all’assalto dei cumuli di
spazzatura nelle discariche. S’alternano gli scenari, ma i
protagonisti hanno tutti un tratto in comune: trascorrono i propri
giorni domandandosi ogni sera se potranno mangiare l’indomani. Per
alcuni il cibo concupito è una palla di miglio, per altri, nei
bassifondi della luccicante Chicago, una scatoletta di junk food.
È anche un viaggio
attraverso il nostro passato rimosso. Nelle lande africane e
asiatiche bistrattate dalla Storia, la vita materiale riecheggia alla
lontana quella dell’Europa preindustriale («il mondo che abbiamo
perduto» del celebre studio di Peter Laslett). Una vita senza luce
elettrica, acqua corrente, WC, riscaldamento, medicinali, densa di
rumori e afrori intollerabili ai nostri pregiati sensi. Una vita
promiscua, in cui il creato si estende al massimo per qualche
chilometro, il tempo libero non è ancora stato inventato e la
vecchiaia resta un problema ipotetico, giacché quasi tutti spirano
prima di deteriorarsi. Una vita regolata, semplicemente, dalla legge
del più forte. Onde il sentimento ambivalente in noi lettori.
Caparrós vorrebbe persuaderci dell’oscenità della nostra epoca,
in cui la fame non è più dovuta alla mancanza di cibo, bensì alla
sua cattiva distribuzione. Eppure, il nostro imperfetto Occidente è
stato capace di conquiste dietetiche altrove impensabili.
Le pagine più
conturbanti sono riservate alla “teodicea”. L’autore parla con
decine di affamati e alla fine pone loro sempre la stessa,
inquietante domanda: «Come può Dio aver creato un mondo con così
tante persone che non hanno abbastanza cibo?». Nessuno degli
intervistati nega la legittimità di un essere superiore: «Dio vuole
così, che possiamo farci...»; «i poveri devono pregarlo per avere
qualcosa da mangiare»; «questo lo sa solo Lui, non io. Per questo è
Dio». L’ateo Caparrós se ne rammarica: «Credevamo di esserci
liberati delle religioni. La loro ricomparsa è uno dei colpi più
duri di questi anni». Ma come stupirsi se quanti «si destano dal
sonno sapendo di non avere più speranza» (Thomas Bernhard),
s’illudono di scorgere il senso della vita in un roseo futuro
ammannito dal Cielo?
Il sole 24 Ore Domenica,
28 giugno 2015
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