Ci sono opere che non
leggeremo più. Che già noi non abbiamo letto, e meno che mai
leggeranno le nuove generazioni. L’Adone, per esempio.
Io sono stata fortunata,
ho potuto conoscere almeno in parte questo grandioso e sorprendente
poema, il più lungo della nostra letteratura, perché ai miei tempi
insegnava a Torino Marziano Guglielminetti, che dell’Adone è
stato un grande studioso. E ora sfoglio per caso una rivista che mi
arriva a casa, «Vita e Pensiero», e trovo un articolo di Marc
Fumaroli proprio sull'Adone (n. 1,2015). «Un poema italiano
che predicava la pigrizia e la voluttà», dice Fumaroli,
l’effeminazione, la devirilizzazione dell’eroe epico e
dell’aristocrazia guerriera.
L’Adone in
effetti, che il nostro Giovan Battista Marino scrive durante tutta la
vita e pubblica nel 1623, celebra non la guerra e l’eroismo delle
armi, ma un mondo di pace, dove al massimo un infortunio di caccia
può incarnare la tragedia. Per questo, dice Fumaroli, il grande
poema del Marino, subito condannato dalla Chiesa perché morum
corruptivus, fu radicalmente ostracizzato in Francia: non si
poteva tollerare una «apologia della civiltà come deliziosa
decadenza e non come progresso duramente conquistato e da spingere
sempre più avanti». L’Adone era un vero e proprio
programma politico pacifista, era l’idillio portato a dimensioni
epiche, era «la fine della storia», l’esaltazione dell’amore,
della riflessione e della memoria, senza azione, senza eroismo: era
«l’allegoria della felicità, certamente fragile e fugace, ma di
gran lunga preferibile all’inferno sulla terra: la guerra». La
politica di Richelieu non poteva tollerarlo.
Noi dovremmo rileggerlo.
O meglio, leggerlo. Per esempio nelle scuole, dove invece, da sempre,
si salta. Noi che oggi siamo una (deliziosa?) civiltà decadente.
Il Sole 24 ore Domenica,
28 giugno 2015
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