Nel Paese in cui più di
due secoli fa la ricerca della felicità è stata sancita come
diritto inalienabile dalla Dichiarazione di indipendenza, è partita
oggi, quasi come un’apoteosi di quel principio, la caccia alla
depressione. Poche settimane fa la task force del governo
statunitense per i servizi di prevenzione ha raccomandato che tutti
gli adolescenti a partire dai 12 anni e tutti gli adulti – con
particolare attenzione alle donne in gravidanza e subito dopo il
parto – siano sottoposti almeno una volta nella vita a un test per
identificare e trattare la malattia.
Troppi casi si scoprono
quando ormai è tardi, per esempio dopo un suicidio, o si trascinano
per anni di sofferenza senza trovare aiuto. «Andare a cercare di
individuare queste situazioni, soprattutto tra gli adolescenti e le
puerpere, potrebbe essere utile», commenta Paolo Migone, psichiatra
di Parma e condirettore della rivista “Psicoterapia e Scienze
Umane” (www.psicoterapiaescienzeumane.it), «ma solo se sarà
occasione per fornire aiuto a tutto tondo con una psicoterapia, e non
diventerà solo pretesto per allargare ulteriormente il mercato degli
antidepressivi, la cui efficacia e sicurezza è periodicamente messa
in discussione dalla ricerca». Un mercato, quello degli
antidepressivi, che non smette di crescere: secondo il quotidiano
britannico “The Guardian”, nel 2010 erano 23,3 milioni gli
americani che prendevano questi psicofarmaci, più del doppio
rispetto al 1998. In Italia, l’andamento, secondo l’ultimo
rapporto periodico sulla salute dell’Ocse (Health
at a Glance, 2015), è simile, con un consumo che, pur
restando sotto la media degli altri Paesi Ocse, dal 2000 al 2013 è
più che raddoppiato, arrivando a circa 43 dosi medie giornaliere al
giorno ogni mille abitanti, per una spesa di 465 milioni di euro.
I brevetti però scadono,
e i prezzi dei farmaci col tempo scendono. Per mantenere il fatturato
si può quindi investire su nuove costose molecole oppure estendere
il numero dei potenziali clienti, andandoseli a cercare, una
strategia molto più efficace e sicura.
La “diagnosi precoce”
è diventato così il santo graal della medicina moderna, cui si
attribuisce il potere miracoloso di preservare da ogni male, anche
quando anticipare la scoperta di una malattia non influisce sulla sua
evoluzione, per esempio perché questa sarebbe stata così lenta da
non manifestarsi, o perché ancora non disponiamo di cure efficaci
per fermarla. Agli esami eseguiti per accertare la natura di un
sintomo, si sono così aggiunti in numero sempre crescente quelli
condotti alla cieca, nell’ambito di check-up o controlli a tappeto,
da ripetere periodicamente, propagandati da un marketing martellante
e insidioso, come fossero modalità per prendersi cura di sé e
proteggere la propria salute, forse allontanare addirittura lo
spettro dell’inevitabilità della morte.
L’attenzione mediatica
alla prevenzione ha prodotto una crescita del malessere percepito che
paradossalmente va di pari passo con il benessere effettivo, per cui
gli abitanti del Bihar, lo stato più povero dell’India, si
ritengono più sani di quanto dichiarino quelli del Kerala, le cui
condizioni di vita non sono distanti da quelle occidentali, e
soprattutto di quanto si sentono malati gli americani, per i quali
l’aspettativa di vita di fatto è molto superiore.
Mai l’umanità è stata
tanto sana quanto lo sono oggi gli abitanti dei Paesi più ricchi, ma
mai è stata così ossessionata dalla paura di ammalarsi.
Una dimensione che spinge
Iona Heath, medico a capo del comitato scientifico del British
Medical Journal, a sostenere che il nuovo oppio dei popoli,
soprattutto nei Paesi in cui si è persa l’osservanza religiosa più
tradizionale, sarebbe diventata la sanità, che proprio come una
religione offre sollievo e speranza contro la sofferenza, cerca
proseliti, impone scelte di vita, qualche volta rischia perfino di
far soffrire le persone per il loro presunto bene. È infatti con
questo provocatorio paragone che si apre il suo ultimo libro
pubblicato in Italia da Bollati Boringhieri, e intitolato Contro
il mercato della salute (2016). Il testo riassume decenni di
dibattito sugli eccessi della medicina, a partire dalla profetica
opera teatrale di Jules Romains che già nel 1923, con il suo Knock,
o il trionfo della medicina, attribuiva al grande fisiologo
francese Claude Bernard lo slogan: «Le persone sane sono persone
malate che semplicemente non sanno di esserlo».
«L’invidiabile regno
dei sani di Susan Sontag è ormai inesorabilmente assorbito nel regno
dei malati», dichiara Iona Heath, citando il classico Malattia
come metafora della scrittrice statunitense.
Un contributo a questa
distorsione lo ha fornito, seppure involontariamente, anche
l’ottimistica definizione dell’Organizzazione mondiale della
sanità (Oms), secondo cui la salute non sarebbe la semplice assenza
di malattie o infermità, ma «uno stato di completo benessere
fisico, mentale e sociale». In pratica, il diritto alla salute
diventa così un diritto alla felicità, (non alla sua ricerca, come
prevedeva, spesso fraintesa, la Dichiarazione di indipendenza
americana). «Creando un’aspettativa di perfezione che non può in
nessun caso corrispondere all’esperienza», chiosa Heath, «la
definizione dell’Oms mina sistematicamente la qualità della vita,
suscitando rabbia e delusione nei pazienti e un senso di fallimento e
frustrazione nei medici». Quelli onesti, almeno.
È invece una gallina
dalle uova d’oro per tutti coloro che della salute fanno un
business: le aziende farmaceutiche, certo, ma anche alcuni
specialisti, i laboratori di analisi o chi produce macchinari e
strumenti che rendono la diagnosi sempre più precoce, accurata,
attenta.
«L’avanzamento
tecnologico permette oggi di identificare un numero sempre maggiore
di condizioni che sarebbero passate inosservate senza mai provocare
danni, ma che, nel momento in cui sono riconosciute, devono essere
trattate, aumentando il numero dei cosiddetti “malati”, che un
tempo non avrebbero mai pensato di esserlo», spiega Nino
Cartabellotta, presidente della fondazione Gimbe che promuove e
realizza attività di formazione e ricerca in ambito sanitario.
La genetica rischia ora
di far fare alla medicalizzazione del nostro mondo un ulteriore passo
avanti: con l’analisi dettagliata del Dna individuale nessuno potrà
più davvero considerarsi sano e sfuggire a una diagnosi, perché
chiunque è portatore di geni che aumentano almeno il rischio di una
o più malattie.
Non si possono poi
ignorare le conseguenze di tutto questo sulla società nel suo
insieme, in termini di allocazione di risorse sempre più limitate.
Anche questo aspetto finisce col riflettersi poi sul singolo, quando
deve aspettare mesi per sottoporsi a un’indagine necessaria, perché
centinaia di suoi concittadini la richiedono inutilmente, o pagare un
ticket salato per un farmaco essenziale, perché la spesa
farmaceutica nazionale è gravata da prescrizioni la cui
appropriatezza è seriamente messa in discussione.
“Appropriatezza” è
una parola difficile, ma cruciale, resa nota a tutti dal decreto
ministeriale che entra in vigore in questi giorni e che da questo
importante criterio della medicina basata sulle prove ha preso nome.
«Appropriatezza però significa “effettuare la prestazione giusta,
in modo giusto, al momento giusto, al paziente giusto”», ricorda
Slow Medicine, associazione di professionisti e cittadini per una
cura sobria, rispettosa e giusta. Slow Medicine ha lanciato in Italia
Choosing Wisely, un’iniziativa che, partendo dagli Stati Uniti, sta
lavorando in 17 Paesi per diffondere l’idea che in medicina «fare
di più non sia sempre fare meglio». «Il progetto, in cui al centro
c’è sempre il dialogo con il paziente, prevede un’assunzione di
responsabilità da parte dei medici che, attraverso le loro società
scientifiche, sono invitati a indicare le pratiche a maggior rischio
di inappropriatezza», precisa Sandra Vernero, vicepresidente del
movimento, che, nell’ambito di Choosing Wisely Italy, ha stilato un
elenco di 145 pratiche di questo tipo, dall’abuso di tranquillanti
negli anziani, che li espongono a cadute e fratture, a quello di Tc
(tomografia computerizzata, ndr) e risonanze al primo mal di schiena.
«Il decreto invece è calato dall’alto e induce la gente a credere
che appropriatezza sia sinonimo di razionamento della spesa. Il
nostro appello per una medicina “sobria, rispettosa e giusta”,
non è motivata in primo luogo dall’esigenza di risparmio, se non
nel senso di una più equa distribuzione delle risorse, quanto dai
vantaggi che il paziente può trarre, evitando rischi e disagi di
quella che il British Medical Journal definisce “troppa medicina”».
“Troppa medicina” è
quella per cui c’è una pillola per ritrovare il desiderio sessuale
in età avanzata e una per migliorare le proprie prestazioni mentali,
si fanno più esami in gravidanza che nel corso di una malattia, e si
preferisce la comodità di una pillola allo sforzo necessario a
mangiare più sano o muoversi di più, nell’ottica di una vera
prevenzione.
Lo conferma il rapporto
Osmed sull’uso dei farmaci in Italia, secondo cui la parte del
leone nel consumo e nella spesa per i farmaci la fanno i medicinali
per abbassare la pressione arteriosa, il colesterolo e la glicemia,
fattori che a loro volta aumentano il rischio di infarti e ictus, ma
che di per sé non sono malattie e su cui bisognerebbe in prima
istanza intervenire con seri cambiamenti degli stili di vita. Ogni
1.000 adulti si consumano infatti in Italia quasi 400 dosi medie
giornaliere di farmaci per controllare la pressione, che insieme a
quelli per abbassare il colesterolo (soprattutto le statine, che
rappresentano la voce di spesa più rilevante) contribuiscono a
portare oltre i 4.000 milioni di euro il costo dei farmaci per il
sistema cardiovascolare, in percentuale il più alto d’Europa.
“Prevenire è meglio
che curare”, quando si intende con i farmaci, e non con gli stili
di vita, è un principio che vale soprattutto per le case
farmaceutiche. Curare i malati acuti è infatti di solito poco
redditizio, perché nel giro di poco tempo guariscono, o muoiono. La
prevenzione delle malattie croniche invece offre un mercato
sconfinato, con una clientela che resta fedele nel tempo e che si può
allargare a piacimento. «Basta abbassare la soglia dei valori di
glicemia, colesterolo o pressione arteriosa considerati pericolosi,
come si è fatto progressivamente negli ultimi decenni, che
immediatamente il numero di potenziali pazienti può anche
raddoppiare», commenta Cartabellotta.
Già alla fine del secolo
scorso applicando le definizioni di diabete, ipertensione,
ipercolesterolemia e sovrappeso il 75 per cento della popolazione
adulta degli Stati Uniti non poteva dirsi sana; tenendo conto dei
valori di pressione e colesterolo che accendono un campanello di
allarme per il cuore, la stessa percentuale di adulti sarebbe a
rischio in Norvegia, dove l’aspettativa di vita è in realtà tra
le più alte del mondo. Nel 1997, la semplice decisione dell’American
Diabetes Association di abbassare la soglia di glicemia a digiuno che
definisce il diabete da 140 mg/dL a 126 mg/dL ha prodotto
istantaneamente, secondo i calcoli di PharmaWatch Canada, un milione
e novecentomila pazienti in più. L’ulteriore introduzione del
concetto di “prediabete”, che riguarda chi sconfina oltre i 100
mg/dL a digiuno, ha esteso ancora di più la potenziale clientela per
farmaci da prendere per tutta la vita.
Con queste strategie,
applicate anche ai livelli di colesterolo e pressione considerati “a
rischio”, tra il 2000 e il 2013, nei Paesi Ocse l’uso di farmaci
per abbassare il colesterolo è più che triplicato e quello di
antidiabetici e antipertensivi quasi raddoppiato.
«Se un tempo si curavano
i disturbi di un paziente, negli ultimi decenni si è passati a
trattare i suoi esami del sangue. Troppi studi sull’efficacia dei
farmaci per l’ipertensione, il colesterolo elevato o il diabete si
sono basati sulla capacità di normalizzare questi valori, senza
preoccuparsi di accertare i loro veri effetti a lunga scadenza
sull’incidenza di infarti, ictus o sulla mortalità totale»,
aggiunge Cartabellotta. «Un altro metodo per aumentare il numero dei
pazienti è estendere la definizione di una malattia, come si è
fatto con l’insufficienza renale cronica: con i criteri attuali tre
quarti degli ultrasessantacinquenni ne soffrono ma non è mai stato
provato che trattarli sia utile».
Lo stesso vale per
l’Alzheimer, malattia per la quale, a tutt’oggi, non disponiamo
di una cura efficace, così come non ci sono prove certe che un
trattamento precoce possa influire in maniera significativa sul suo
andamento. Chiunque riceverà la diagnosi di una lieve compromissione
cognitiva, pur sapendo che non necessariamente il disturbo si
evolverà in demenza, prenderà le sue pillole. Ma la spada di
Damocle di questa diagnosi rischia comunque di compromettere la
qualità della sua vita, senza che possa cambiarne davvero il
destino.
Pagina 99, 20 febbraio
2016
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