A volte le parole sono
ingannevoli. Riescono ad «allettare sempre, tessendo una maglia di
labili convincimenti». Però ci sono parole e parole. Ce ne sono di
«straordinariamente semplici e nude». Che risultano efficaci,
incisive e dure. Non esortano alla pace ma alla guerra e sono
destinate a non rivelarsi mai fallaci: sono quelle dei poeti e dei
condottieri. Questa distinzione la avanza lo scrittore Giorgio
Caproni in una sua sofisticata prosa d'arte del 1938. Il brano, edito
dalla rivista fascista “Augustea”, appare sul numero del 28
ottobre, celebrativo dell'anniversario della Marcia su Roma, e
s'intitola Testimonianze al Capo. L'omaggio destinato a
solleticare l'ego di Colui che non sbaglia mai - infallibile non solo
nell'azione ma anche nel verbo: viene paragonato a Dante e
Machiavelli - è del poeta più ritroso e meno desideroso di apparire
della letteratura italiana. Il documento getta nuova luce sui
rapporti di Caproni con il regime ed è stato ritrovato per caso
dalla studiosa Paola Frandini. La ricercatrice - dopo aver raccolto
le toccanti lettere degli ebrei italiani al Duce, scritte a ridosso
delle leggi razziali (uscite di recente in Ebreo, tu non esisti.
Le vittime delle leggi razziali scrivono a Mussolini) - era sulle
tracce di ben altro. Cercava qualche pronunciamento degli
intellettuali italiani sui provvedimenti razziali che mettono al
bando i cittadini israeliti. Niente. I faldoni si sono rivelati vuoti
mentre è emersa quest'esternazione di fede e di sconfinata
ammirazione di una delle più importanti voci poetiche del secolo
passato. Il 1938 è un anno cupo per tutta Europa. Sono terribili i
venti di guerra che soffiano, mentre settembre è il mese più
crudele per gli ebrei italiani che assistono inermi all'escalation
razzista. Non è un anno invece particolarmente feroce per l'autore
del Passaggio di Enea. Di origini modeste, il padre Attilio è
ragioniere, la mamma una sartina, Caproni ha dovuto faticare sia per
imporsi nel mondo delle lettere che per assicurarsi il pane.
Finalmente, però, ha trovato una stabile occupazione come maestro
elementare a Rovegno, in Val Trebbia, dove passerà anche i mesi
della guerra civile. Nell'anno in cui compila La parola di
Mussolini, fresco di nozze si trasferisce a Roma, restandovi però
solo poco tempo, e da' alle stampe una delle sue piu' importanti
raccolte, Ballo a Fontanigorda, destinata ad assicurargli un
posto nel pantheon letterario e a consacrare la Val Trebbia come
luogo di poesia. La parola «infallibile» di cui esalta i meriti in
questa testimonianza non è però solo quella poetica. È la parola
che sa pronunciare «un suono convincente che all'istante apre il
cuore alla più grande fiducia». A chi appartiene? «Fu la parola di
Cesare e di Dante, di Savonarola e di Machiavelli e, oggi unica, è
la parola di Mussolini». Infatti è «una parola di ferro, direi una
parola armata che conduce gli innumerevoli che sbigottiscono di se
stessi, che bramano un condottiero ideale o reale (ed è in
quest'ansia la loro nobiltà) che li scagli oltre i limiti di una
pace insidiata e perciò insidiosa. Io penso con meraviglia al fatto
che tanta potenza scaturisca da vocaboli puri, i vocaboli che tutti
comprendono, dal letterato alla tormentata donna di casa, ma che solo
le grandi coscienze possono adoperare». Chi ne possiede il segreto?
«Solo i condottieri (e a volte pure i poeti sono tali) ne posseggono
forse il segreto. Per certo nessuno lo possedette e, oso dire, lo
possiederà al grado del Duce». Dopo la fine della guerra, Caproni
diventerà firma di primo piano dell'intellighentia di
sinistra su “L'Unita'”, “Mondo operaio”, “Avanti!”,
“Italia socialista”, “Il lavoro nuovo”. Nel '48 è a Varsavia
a rappresentare gli scrittori progressisti e antifascisti al primo
«Congresso degli intellettuali per la pace». Il letterato livornese
deve infatti la sua fama anche a quella di cantore della Resistenza
in Val Trebbia, dove sono pure gli amati luoghi dell'insegnamento.
Nel '45 scriveva che aveva molte difficoltà a rientrare a Genova.
Avrebbe voluto risiedere per sempre in quei posti dove si era
combattuto accanitamente e che solo sentiva come «patria mia».
“La Stampa”, 23
febbraio 2007
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