16.3.16

Il Duce meglio di Dante. Caproni e il fascismo trionfante (Mirella Serri)


A volte le parole sono ingannevoli. Riescono ad «allettare sempre, tessendo una maglia di labili convincimenti». Però ci sono parole e parole. Ce ne sono di «straordinariamente semplici e nude». Che risultano efficaci, incisive e dure. Non esortano alla pace ma alla guerra e sono destinate a non rivelarsi mai fallaci: sono quelle dei poeti e dei condottieri. Questa distinzione la avanza lo scrittore Giorgio Caproni in una sua sofisticata prosa d'arte del 1938. Il brano, edito dalla rivista fascista “Augustea”, appare sul numero del 28 ottobre, celebrativo dell'anniversario della Marcia su Roma, e s'intitola Testimonianze al Capo. L'omaggio destinato a solleticare l'ego di Colui che non sbaglia mai - infallibile non solo nell'azione ma anche nel verbo: viene paragonato a Dante e Machiavelli - è del poeta più ritroso e meno desideroso di apparire della letteratura italiana. Il documento getta nuova luce sui rapporti di Caproni con il regime ed è stato ritrovato per caso dalla studiosa Paola Frandini. La ricercatrice - dopo aver raccolto le toccanti lettere degli ebrei italiani al Duce, scritte a ridosso delle leggi razziali (uscite di recente in Ebreo, tu non esisti. Le vittime delle leggi razziali scrivono a Mussolini) - era sulle tracce di ben altro. Cercava qualche pronunciamento degli intellettuali italiani sui provvedimenti razziali che mettono al bando i cittadini israeliti. Niente. I faldoni si sono rivelati vuoti mentre è emersa quest'esternazione di fede e di sconfinata ammirazione di una delle più importanti voci poetiche del secolo passato. Il 1938 è un anno cupo per tutta Europa. Sono terribili i venti di guerra che soffiano, mentre settembre è il mese più crudele per gli ebrei italiani che assistono inermi all'escalation razzista. Non è un anno invece particolarmente feroce per l'autore del Passaggio di Enea. Di origini modeste, il padre Attilio è ragioniere, la mamma una sartina, Caproni ha dovuto faticare sia per imporsi nel mondo delle lettere che per assicurarsi il pane. Finalmente, però, ha trovato una stabile occupazione come maestro elementare a Rovegno, in Val Trebbia, dove passerà anche i mesi della guerra civile. Nell'anno in cui compila La parola di Mussolini, fresco di nozze si trasferisce a Roma, restandovi però solo poco tempo, e da' alle stampe una delle sue piu' importanti raccolte, Ballo a Fontanigorda, destinata ad assicurargli un posto nel pantheon letterario e a consacrare la Val Trebbia come luogo di poesia. La parola «infallibile» di cui esalta i meriti in questa testimonianza non è però solo quella poetica. È la parola che sa pronunciare «un suono convincente che all'istante apre il cuore alla più grande fiducia». A chi appartiene? «Fu la parola di Cesare e di Dante, di Savonarola e di Machiavelli e, oggi unica, è la parola di Mussolini». Infatti è «una parola di ferro, direi una parola armata che conduce gli innumerevoli che sbigottiscono di se stessi, che bramano un condottiero ideale o reale (ed è in quest'ansia la loro nobiltà) che li scagli oltre i limiti di una pace insidiata e perciò insidiosa. Io penso con meraviglia al fatto che tanta potenza scaturisca da vocaboli puri, i vocaboli che tutti comprendono, dal letterato alla tormentata donna di casa, ma che solo le grandi coscienze possono adoperare». Chi ne possiede il segreto? «Solo i condottieri (e a volte pure i poeti sono tali) ne posseggono forse il segreto. Per certo nessuno lo possedette e, oso dire, lo possiederà al grado del Duce». Dopo la fine della guerra, Caproni diventerà firma di primo piano dell'intellighentia di sinistra su “L'Unita'”, “Mondo operaio”, “Avanti!”, “Italia socialista”, “Il lavoro nuovo”. Nel '48 è a Varsavia a rappresentare gli scrittori progressisti e antifascisti al primo «Congresso degli intellettuali per la pace». Il letterato livornese deve infatti la sua fama anche a quella di cantore della Resistenza in Val Trebbia, dove sono pure gli amati luoghi dell'insegnamento. Nel '45 scriveva che aveva molte difficoltà a rientrare a Genova. Avrebbe voluto risiedere per sempre in quei posti dove si era combattuto accanitamente e che solo sentiva come «patria mia».

“La Stampa”, 23 febbraio 2007  

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