9.3.16

Una vita al massimo. Intervista a Loredana Bertè (Francesca Angeleri)


La vita è così, un maledetto affare del cazzo». Per dire. Così è Loredana Bertè: se stessa fino in fondo. L’età di una signora non si dice mai, soprattutto se la caviglia è quella di sempre e la coscia pure, ma Loredana ha abbastanza esperienze e ha dormito sotto sufficienti cieli stellati, per raccontare qualcosa a qualcuno.
E siamo certi che il suo pubblico non si farà scappare Traslocando, la biografia edita ora da Rizzoli. Generosa, fino all’osso. Di aneddoti, racconti, sentimenti, tristezze.
Non nasconde niente, non fa finta di non essere stata quello che è stata. Una ribelle, coraggiosa, bellissima donna. Una rockettara, come dicevano i tabloid quando era la signora Borg e lui faceva il giro del mondo come ambasciatore. O una metallara, come la definì Umberto Eco parlandone con Mario Luzi che insieme a lei e a Carla Fracci faceva la Gerusalemme. «Si chiama Loredana Bertè ed è un genio» rispose il maestro, e la finì così.
Qualunque cosa sia stata e in qualunque modo abbia voluto vivere, in ogni modo abbia cantato e ballato e sbraitato, la gente l’ha amata e la ama, come dimostra questa renaissance dell’ultimo periodo.
Oltre al libro è infatti di prossima uscita un album prodotto da Fiorella Mannoia che la vedrà cantare tutti i suoi successi in compagnia delle più grandi cantanti italiane. Non potrebbe parlarne e c’è la sua manager che le urla qualcosa mentre me lo dice: Amici non ne ho — si intitola — ma amiche sì.
Traslocando racconta il «girone di andata» perché se è vero che detesta il «fan club di dio» alla reincarnazione le piace credere e «nel girone di ritorno sarei più furba, magari farei l’avvocato».
È un libro duro «sono stata spietata, con me stessa soprattutto. Mi piace lo stile senza fronzoli, alla Bukowski, che adoro. È andata così, Francesca (Losappio la sua manager, ndr) ovunque eravamo mi faceva delle domande e mi registrava sul suo telefonino. In seguito ho tirato giù due stesure, una di pancia e l’altra di testa».
Ci sono tutti. Renatino, la madre, il padre, Berger, Fossati, Warhol, Borg, Panatta, Mita Medici, Don Lurio, il Piper, De Andrè …e Mimì. Ovviamente. Ci sono le mille case dove ha traslocato con la madre, le violenze quotidiane, il padre, le scorribande, la RAI, i mille aerei presi, le giornate buone e quelle maledette.
«Mi sta molto antipatica la vecchiaia. Perché la mia data di nascita non c’entra nulla con quello che penso, sento e sono. Ma, se mi fa male un muscolo, per dire, è perché l’ho usato! Quante scale ho fatto nella vita? Miliardi! Ho vissuto in pieno. Ho odiato e alcuni continuo a odiarli, il rancore non è sparito. Ho scopato, fumato, ho fatto tutto quello che potevo fa’! Quindi qualche acciacco ce sta. La vecchiaia va guadagnata. Però mi scoccia».
«Vorrei avere 20 anni de meno però, per dire ti amo tanto Mimì…e prendermi quel telefonino che voleva darmi. Adesso non me lo prendo più. A che serve? Una volta che hai perso la telefonata della vita puoi farne a meno».
Credo che il motivo per cui tanti la amano, sia perché un po’ di Bertè, dentro, ce l’abbiamo tutte, quello che non c’è è il coraggio di tirarla fuori. Lei, chi ama ama. E chi odia, odia. A noi ci ama.
«Gli eretici mi sono sempre piaciuti e il pregiudizio, in tutti i campi, l’ho sempre combattuto. Per questo ho letto il manifesto fin dall’alba della sua pubblicazione…mi definivo e mi definisco una manifestina militante».
«Quella del manifesto era un’impresa che andava sostenuta a qualsiasi costo…La libertà di dire quello che pensi ha sempre un prezzo alto».
«Dei soldi non mi è mai fregato niente ma quando li ho avuti li ho dati via. E sono diventata azionista del Manifesto e ci ho fatto diventare pure Fidel! Valentino Parlato era felicissimo!».

Da piccola voleva fare la regina, a modo suo lo è stata. E lo è ancora. E quando sale sul palco «la mia unica valvola di sfogo» con quella minigonna Wow che non è mai cambiata «è la mia bandiera di libertà! E non me ne frega niente, finché me la posso permettere non ci rinuncio» è sempre bellissima.

"il manifesto", 2 dicembre 2015

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