La cosa più importante
accaduta nella sinistra in questi ultimi mesi è il dibattito sulla
non violenza, iniziato con la presa di posizione di Bertinotti al
convegno sulle foibe dello scorso dicembre e proseguito poi con molti
notevoli interventi su “Liberazione” e su “Il manifesto”. In
questo suo discorso veneziano Bertinotti rinunciava alla frase del
vecchio Brecht: “Noi che abbiamo voluto il mondo della gentilezza
non abbiamo potuto essere gentili”; quindi: per approntare il mondo
alla gentilezza occorre essere gentili - qui, ora, da subito. Ed è
vero, non sembra possibile prefigurare un mondo più gentile a furia
di brutalità, anche se non è per niente facile liberarsi di
quell’altra frase, certo meno poetica: chi pecora si fa, il lupo se
lo mangia. Ma questa, probabilmente, è una verità menzognera, come
tutta la presunta saggezza secolare che ci tiene inchiodati al nostro
limite.
Bisognerebbe saper dire:
né pecora né lupo, ma umani - per liberare l’uomo. Qui però si
entra in un campo difficile (cos’è essere umani?), in cui ci aiuta
forse a districarci, per capire la materia di cui siamo fatti, la
lettura dei nostri grandi poeti (Montale, Caproni, Luzi, ...); e la
lettura, accanto ad essi, della poesia di Pietro Ingrao. Dico propria
della sua poesia, saltando qui d’un balzo perfino il suo intervento
nel dibattito che si diceva, e che pure ne segna il punto più alto
(per spiegare la contraddizione in cui è indotto - in cui tutti noi
siamo indotti - ricorda il ritratto di Che Guevara della moglie
Laura, “persona mite” ...). Questo perché, di fronte ai grandi
temi che in maniera anche drammatica ci attraversano, abbiamo più
bisogno, credo, di andare alla radice del messaggio che ci viene dai
nostri maestri (dai “compagni maggiori”): all’espressione più
radicale, alla (baudelairiana) “anima messa a nudo”, che è la
poesia; anche la poesia controllatissima, severa, classica di un
poeta come Ingrao che è lontanissimo dall’effusione lirica e da
ogni compiacimento dello spargimento di sé. A patto tuttavia che non
si pensi che questo Ingrao sia altro dalla persona che più
conosciamo: il poeta è la stessa cosa dell’autore di Masse e
potere, solo ad un livello diverso, ad un livello di più
profonda radicalità. E tanto meno si pensi (ma questo ormai è
evidente) alla sua poosia come ad un tardivo espediente consolatorio
o,peggio ancora, ad uno snobistico divertissement - il riposo
dell’uomo pubblico.
È la poesia di Ingrao a
cancellare, fin da una prima lettura, queste riserve: una poesia
difficile, mai tentata dal minimalismo (un testo si apre con
“Tutto:"), la cui comprensione richiede l’uso di forti
strumenti analitici. E una poesia tutta nel segno della
contraddizione irrisolta (“Pensammo una torre. / Scavammo nella
polvere.”), quella contraddizione che ce ne fa cogliere il nesso
profondo con l’esperienza civile, politica: la progettualità
perfino eroica di generazioni di combattenti e la consapevolezza (mai
doma, mai arresa) della sconfitta. Veramente qui ci persuadiamo che,
come scrive il poeta Cesare Viviani nella nota di copertina del primo
libro poetico di Ingrao, “la politica è vicina alla poesia” - e
viceversa. Ma lo è in un modo speciale, che si intende solo se si sa
rinunciare a un’idea “muscolosa e ottimistica” della politica,
come direbbe Fortini. Il quale Fortini poi, rintracciando le “verità
etico-politiche” della poesia di Ingrao e sue proprie, scrive: “la
dimensione tragica della storia, l’ambiguità di ogni scelta
morale, la certezza che i vinti sono illuminati da una luce che
abbandona i vincitori, il significato del dolore, della malattia,
della morte” (in Conversazione su Il dubbio dei vincitori,
ed. Cadmo, 2002; ma la “conversazione” tra Olivetti, Fortini,
Scalia e lo stesso Ingrao si è svolta nel 1987). E mi preme qui
sottolineare un punto, che forse è quello che resta più forte dopo
la lettura di Ingrao: la luce che illumina i vinti e che abbandona i
vincitori. Penso che quella luce possa essere la poesia. Ingrao
intitola una delle due sezioni che compongono il suo primo libro
poetico Le sillabe: sillabica è la pronuncia faticosa,
insicura, della voce dei vinti, degli oppressi, degli ultimi (“muti”,
“senza lingua”); ma sillabica è anche l’unità metrica della
lingua poetica italiana, il ritmo della poesia, che sa parlare anche
nei tempi dell’afasia (si pensi al montaliano “sì qualche storta
sillaba”). Allora la poesia è una forma di risarcimento, un dire
al posto di chi non può dire: di nuovo ritroviamo una vicinanza di
politica e di poesia.
I libri di poesia di
Ingrao, fino ad ora, sono tre: Il dubbio dei vincitori,
Mondatori, 1986; L’alta febbre del fare, Mondatori, 1994;
Variazioni serali, Il Saggiatore, 2000. Ma attenzione: il
primo, decisivo, libro è ora introvabile in libreria, è fuori
catalogo, e a Perugia lo si può trovare solo alla biblioteca della
Facoltà di Lettere (nemmeno alla Biblioteca Augusta!). Questo fatto
induce a tristi pensieri sul destino dei libri di poesia e mi ricorda
un episodio piuttosto deprimente: qualche anno fa (era il
cinquantesimo della liberazione di Auschwitz) avevo pensato di
adottare in una mia classe, accanto a Dante, L’istruttoria
di Peter Weiss, come attualizzazione novecentesca, storica e
concreta, dell’inferno. Non potei farlo, perché quel libro (edito
da Einaudi nel 1965), ormai fuori catalogo, non era in nessun modo
reperibile. Non ci si deve tuttavia arrendere all’azzeramento della
comunicazione e della memoria: “Da lontano / ci mandiamo segni”,
direbbe Ingrao.
“micropolis”, marzo
2004
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