Siena - Ospedale di Santa Maria della Scala, La facciata |
«Quello che viene
sottratto a Cristo, se lo prende il fisco» (Hoc
tollit fiscus, quod non accipit Christus). Questa
frase, attribuita ad Agostino di Ippona, e ampiamente citata dai
teologi e giuristi medievali, per essere infine ripresa dal Decretum
Gratiani, prima parte del codice di Diritto Canonico elaborato
verso il 1140 a Bologna, può ben introdurre una riflessione sui
rapporti che, sin dalle origini dell’Europa cristiana, la Chiesa
intrattenne con lo Stato, inteso in questo caso come realtà fiscale.
Agostino, del resto, in un suo Sermone (302, 5) pronunciato
nei primi anni del quinto secolo, aveva fatto notare ai fedeli che
«se il fisco si prende le tue ricchezze, te ne priva in questo
mondo, mentre se è il Cristo a prendertele, te le conserva in cielo»
(si tollat fiscus, te spoliat in hoc saeculo; si tollat Christus,
tibi servat in caelo).
Questo discorso
«agostiniano», nella rilettura fattane dal Diritto canonico,
stabiliva in sostanza che la renitenza a pagare le decime alle chiese
rafforzava le pretese fiscali dei poteri laici che impoverivano i
cristiani, laddove invece il pagamento fiscale fatto alle chiese era
ripagato dalla promessa di una Salvezza futura, era insomma una forma
di investimento fruttifero.
«Patrimonia
pauperum»
La Chiesa e il potere dei
sovrani venivano, in definitiva, contrapposti a partire dal fatto che
tanto l’una quanto gli altri erano in diritto di riscuotere
pagamenti fiscali. La resistenza, eventuale, dei fedeli a pagare
quanto dovevano alle chiese, si risolveva – osserva dunque la
tradizione canonistica – in un guadagno per i poteri sovrani laici
in quanto esattori di imposte e in una perdita secca (di denaro e di
Salvezza) per i fedeli. Questa contrapposizione, e, si potrebbe dire,
competizione fiscale, di antica origine, era fondata in primissimo
luogo sul riconoscimento da parte degli imperatori cristiani, dopo il
380, anno della definizione del Cristianesimo come unica religione
ufficiale dell’Impero romano (per il tramite dell’Editto di
Tessalonica), della natura pubblica dei beni delle chiese, dunque
della realtà economica ecclesiastica come realtà analoga a quella
imperiale.
Da quel momento, ma con
una forte sottolineatura avvenuta in ambiente carolingio (almeno dal
789), il patrimonio delle chiese (res ecclesiarum) sarà
riconosciuto dai re e dagli imperatori cristiani d’Occidente come
di rilevanza pubblica; il diritto di riscuotere le decime ed
eventuali altre forme di prelievo fiscale da parte delle chiese
poggerà concretamente su questo riconoscimento, tipico della storia
europea, e sarà quindi alla base della rivendicazione fiscale
codificata poi dal Diritto canonico nel dodicesimo secolo, che in
sostanza vedeva nella negazione dei diritti fiscali delle chiese, e
della Chiesa, l’origine di un abusivo accrescimento delle entrate
dei regni e degli Stati.
D’altra parte, sempre a
partire dal più antico Diritto canonico, quello pre-grazianeo, i
beni delle chiese, tanto fondiari e dunque generatori di rendite,
quanto mobiliari, erano definiti «patrimonio dei poveri» (res
ecclesiarum, patrimonia pauperum), essi cioè erano intesi come
istituzionalmente affidati alle chiese perché si prendessero cura
dei poveri: il diritto fiscale delle chiese si veniva dunque sommando
a una definizione giuridica del loro potere economico come potere
esercitato in rappresentanza di coloro che, in quanto «poveri»
ossia socialmente impotenti, dovevano essere tutelati e sostentati.
Politiche
assistenziali
Quando, dopo l’undicesimo
secolo e la cosiddetta riforma o rivoluzione «gregoriana», il
sistema europeo delle chiese si mutò nella Chiesa, si venne
definendo il «primato romano» del Pontefice insediato sul trono di
Pietro, e si cominciò ad affermare, dal pontificato di Alessandro
terzo a quello di Bonifacio ottavo (dagli anni ’70 del secolo
dodicesimo alla fine del secolo tredicesimo), la predominanza
teocratica dell’autorità papale sui poteri sovrani contemporanei,
il conflitto fiscale già precedentemente esistente si precisò
ulteriormente in termini politici.
La dottrina canonica ed
economica prodotta dall’universo intellettuale ecclesiastico dalla
metà del Duecento riaffermò dunque con vigore le rivendicazioni
fiscali della Chiesa, a questo punto, però, nettamente rafforzate
dal fatto che, soprattutto in Italia, un’Italia priva di forme
solide di sovranità nazionale a differenza di quanto avveniva
altrove in Europa, la Chiesa in quanto sistema istituzionale,
riassunto nella figura del Papa a Roma, aveva come sua caratteristica
decisiva e indiscussa quella di gestire, oltre la vita spirituale dei
fedeli, la vita economica di tutti i fedeli che componevano il vasto
popolo dei «poveri», dei quasi poveri, dei poverissimi e degli
impoveriti. Questa amministrazione delle povertà, radicata sia
giuridicamente sia politicamente tanto nella tradizione canonica
quanto in quella civilistica dei secoli dodicesimo e tredicesimo, ma
determinata anche dalle specifiche politiche assistenziali delle
città che delegavano alle istituzioni ecclesiastiche la cura dei
«poveri», prendeva la forma che poi si mantenne per secoli della
amministrazione diretta o della gestione condivisa con
amministrazioni civiche, di enti pii di vario tipo, dagli ospedali
alle case di accoglienza ai brefotrofi ai Monti di Pietà.
Poteri pubblici
Poiché i beni delle
chiese erano per definizione «dei poveri» e gli ecclesiastici che
amministravano questi beni erano, formalmente, sia per antico diritto
sia per conseguenza dell’atteggiamento legislativo della maggior
parte dei poteri laici, null’altro che gli amministratori di un
patrimonio sostanzialmente pubblico, la Chiesa venne affermando
sempre di più, in ambito amministrativo e in modo particolare in
area italiana, la sua configurazione di potere pubblico.
Efficienza
ospedaliera
Dal medioevo all’epoca
moderna il conflitto fiscale ha quindi caratterizzato, per forza di
cose, i rapporti fra Chiesa e Stati: sia perché la crescita dei
poteri nazionali determinava da parte dei sovrani una nuova
rivendicazione di controllo fiscale totale dei territori sui cui
perduravano gli antichi diritti delle chiese, sia perché la Chiesa,
dal canto suo, forte delle prerogative giuridiche che ne avevano
definito la crescita politica, dichiarava a sua volta la prevalenza
delle proprie prerogative fiscali, in se stesse tradizionalmente
fondate sul carattere «pubblico» del suo ruolo economico nei
contesti amministrativi degli Stati.
In particolare, la cura e
la gestione del bisogno, l’amministrazione della miseria o della
povertà, nelle loro molteplici forme sociali e antropologiche, ha
contribuito a rafforzare il protagonismo economico delle chiese e
della Chiesa in Occidente: tanto la sperequazione economica sempre
più forte che ha accompagnato lo sviluppo politico europeo, quanto
la poliedricità imprenditoriale degli enti ecclesiastici, già
evidente, in Italia, nel carattere a un tempo assistenziale, bancario
e fondiario di taluni grandi ospedali (da quello di Santa Maria della
Scala a Siena a quello di Santo Spirito a Roma), hanno, nel tempo,
prodotto sia una forza e un’efficienza economiche delle istituzioni
ecclesiastiche di per sé notevolissime, sia una competenza a gestire
il bisogno in termini caritativi, in quanto tale spesso sostitutiva
di politiche statali del diritto e dell’equità.
Convergenze
parallele
In Italia, il peso
grandissimo di questa tradizione, giuridica e consuetudinaria, ha
certamente favorito, unitamente al suo assestamento e alla sua
legittimazione in termini concordatari (nel 1929 e nel 1984), il
collocarsi parallelo della Chiesa allo Stato nelle questioni
riguardanti la gestione delle emergenze economiche, ma anche di tutte
le problematiche inerenti alla disuguaglianza sociale, ossia alla
diminuzione o alla privazione dei diritti di cittadinanza derivate
dalle più varie forme di disparità.
L’accettazione da parte
dei rappresentanti dello Stato, di questo ruolo sostitutivo della
Chiesa, ha implicato e continua a implicare un’ambiguità di fondo
a proposito del dovere della Chiesa di assolvere a obblighi fiscali
che lo Stato impone già con difficoltà in Italia, a molti soggetti
privati, ma che, tanto più stenta a definire per un soggetto che,
come la Chiesa, si presenta da sempre, in tutta la forza della sua
presenza pubblica, come analogo allo Stato.
“il manifesto”, 28
dicembre 2011
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