Con la pubblicazione del
terzo volume dei Romanzi di Zola nella collana dei Meridiani
giunge a compimento l’ambizioso progetto editoriale di offrire nove
dei più significativi intrecci del naturalista francese in nuova
traduzione. L’impresa, affidata a Pierluigi Pellini, è stata
iniziata nel 2010 con il volume dedicato a Thérèse Raquin,
L’Assommoir e Nana, seguito nel 2012 da Pot-Bouille,
Au Bonheur des Dames e La joie de vivre. Il terzo tomo
contiene tre delle massime cime del ciclo dei Rougon-Macquart, il
grande massiccio centrale della storia del romanzo europeo
ottocentesco: Germinal, La Terra e La Bestia umana,
nelle rispettive traduzioni, tutte ammirevoli, di Giovanni Bogliolo,
Donata Feroldi e Dario Gibelli (Mondadori, «I Meridiani», pp. 1920,
euro 80,00). Questo insieme costituisce un vanto dell’editoria
italiana ed è merito delle introduzioni del curatore, veri e propri
saggi appassionati quanto informati, nonché del vasto e mai
superfluo apparato di annotazioni che riassumono un secolo e mezzo di
critica, aver dato la possibilità di una nuova lettura di quelli che
rimangono, comunque, tra i romanzi più conosciuti della letteratura
moderna.
Germinal anzitutto.
Come la polvere di carbone che ricopre i corpi esausti dei minatori
nei cunicoli sotterranei di Montsou, uno strato altrettanto spesso di
interpretazioni critiche si è sedimentato sulle pagine di questo
immenso romanzo. Realismo, naturalismo, indagine sociologica,
documento politico, racconto mitico o visionario, romanzo di
formazione sentimentale e sindacale: sin dalla sua pubblicazione nel
1885, la critica ha tentato tutte le vie per scalare questa montagna
di carta nera d’inchiostro e di carbone. Per piantare sulla sua
cima il cartiglio che doveva riassumere la funzione essenziale della
letteratura: indignare, commuovere, convincere, rivoluzionare,
seminare speranza o gettare rassegnazione.
Sono vessilli che il
vento della storia ha moltiplicato e stracciato allo stesso tempo. La
tensione patriottica che attraversa l’opera di Zola si spegnerà
nelle trincee di Verdun, Freud metterà fuori gioco la fisiognomica
di Lombroso, il sole dell’avvenire socialista che sorge nelle
ultime pagine di Germinal è tramontato negli ultimi decenni
del secolo scorso. L’anonimo capitalismo contro cui si scatena la
furia dei minatori ha proseguito, come la locomotiva della Bestia
umana, la sua corsa devastante e trionfante; del loro sciopero
omerico la storia ha fatto un vuoto rituale, e l’indignazione si è
raffreddata in indifferenza. Dell’odio sociale che incendiava lo
sguardo di Lantier non rimane che sordo rancore personale: buono
tutt’al più ad assassinare la propria moglie, e non, come nel
romanzo, a castrare il padrone. In fin dei conti, nessuna delle
promesse ideologiche di cui l’opera di Zola sembrava essere
portatrice è stata mantenuta.
E tantomeno risulta
rispettata la funzione che lo scrittore assegnava al romanzo,
radicalizzando l’ambizione che già era stata di Balzac: spiegare
l’occulta dinamica che governa il destino di ciascuno ricorrendo
alle teorie ottocentesche della genetica o della fisiognomica. Quella
vena rossa, rosso sangue e non politico, che doveva collegare natura
e destino in base alle leggi dell’ereditarietà, è un filo che si
è rivelato senza resistenza. Il padre non spiega il figlio, le tare
familiari sono come dadi lanciati in aria: quasi mai la Bestia lascia
indovinare la sua presenza attraverso le apparenze esteriori, che
siano i tratti del volto, la forma del cranio o l’indole personale.
La Bestia. Prima
ancora che Zola la nomini nel titolo del suo romanzo ferroviario per
designare la locomotiva che devasta i paesaggi che attraversa e i
destini che la incrociano, essa è l’espressione metaforica della
cieca, immensa e violenta forza che attraversa tutto il ciclo dei
Rougon-Macquart, animando le masse come gli individui, declinando la
passione politica in pulsione erotica e assassina, coniugando Eros e
Thanatos in una rappresentazione della vita pubblica e privata che ha
l’afflato di un moderno racconto mitologico ed epico. La Bestia sta
al cuore dei romanzi di Zola, e in particolare di questi tre, come il
Minotauro è accucciato al centro del Labirinto.
In Germinal, il
Labirinto sarà il villaggio operaio di Montsou che ruota attorno al
Voreux, la miniera, vorace già nell’etimo, nelle cui viscere
inghiotte e divora una dopo l’altra generazioni di minatori, e che
alla fine si allaga come una sorta di Stige furioso, consegnando le
sue vittime all’implacabile Capitale, che placido attende in
superficie.
Già i primissimi lettori
di Zola, primo fra tutti Jules Lemaître, avevano riconosciuto in
questi romanzi un afflato epico, e in Zola il primo creatore di
moderni miti. La critica zoliana, tra le più fertili del secondo
Novecento – si ricordino i grandi saggi di Henri Mitterand, Michel
Serres, Philippe Hamon – ha molto insistito su questo aspetto,
senza evitare sempre il rischio di sottrarre la rappresentazione
della Bestia alla sua crudità, facendone una forza metastorica che
investe l’Umanità prima che il proletariato, la Folla, intesa come
moderno soggetto epico, più che il popolo.
La notte nera che, in
apertura di Germinal, avvolge il protagonista che muove i
primi passi verso il suo destino facendo risuonare la cadenza di un
verso alessandrino, risulta, in questa prospettiva, la grande e nera
tela di fondo su cui la lotta tra capitale e lavoro si staglierà
come una tragedia greca – «lamento delle Tenebre» dirà Huysmans
– prima ancora che come terribile dramma sociale.
Ora, è questa tela che,
nelle sue tre ampie, rigorose e allo stesso tempo vibranti
Introduzioni, Pierluigi Pellini invita a sollevare. Per
scorgere dietro di essa lo sguardo feroce della Bestia e riconoscere
in ognuno di questi romanzi anzitutto «il romanzo della Bestia che
abita nell’inconscio sociale e nell’inconscio individuale di
un’umanità refrattaria a ogni idealizzazione». Per non dire a
ogni forma di redenzione, secondo la lezione di Schopenhauer. È la
Bestia che, nutrendosi della sua fatica, logora il sangue del
lavoratore, ne acceca la coscienza, procurando, nel corpo sociale,
come in quello degli individui, le più inaudite violenze, le ferite
più sanguinose, gli stupri più efferati. In Zola la miseria non è
una piaga della società, è anzitutto piaga del corpo, tumefazione
della pelle, ferita subita e inferta. E quindi esibita in tutta la
sua umana nudità e disumana violenza affinché risulti in
controluce, ma immensa e imperdonabile, la pressione alienante del
lavoro cui è sottoposto il minatore, il contadino, il macchinista.
Questa lettura giustifica
la selezione del Meridiano di recente uscita, che presenta, dopo
Germinal, due dei più violenti, neri, addirittura truculenti
romanzi dei Rougon. La Terra è il romanzo del mondo rurale,
come La Bestia umana è dedicato a quello delle ferrovie. Sono
entrambi dominati dalla figura dello squarcio: anzitutto di quel velo
idillico che il romanzo ottocentesco aveva steso sul mondo contadino,
nonché di quello tessuto dal mito del progresso che rivestiva il
ferro della locomotiva per farne un destriero lanciato verso un
radioso futuro. Ma di future prosperità, agricole o industriali, non
vi è qui traccia. Di nuovo, solo tracce di ferite e stupri arrecati
da contadini piegati alla – piagati dalla – feroce religione del
possesso della terra, che è «erinni e non alma mater», da
cui ogni contadino è posseduto, come in Verga, primissimo lettore di
Zola. Tra i ferrovieri, ferite e delitti sono il frutto
dell’abbrutimento dovuto a turni di lavoro massacranti per servire
una macchina che si nutre, Minotauro meccanico, di fatica umana,
bruciandola come carbone. E lasciando dietro di sé nella notte due
fanalini rossi come tizzoni, gli occhi della Bestia.
Né di destra né di
sinistra, l’opera di Zola si rivela in questi romanzi anzitutto
sinistra: «la sinistra rappresentazione, scrive Pellini, di
un’esistenza disumana». Disattese le promesse rivoluzionarie che
gli erano state attribuite, quest’opera che non spiega, che non
redime, in cui la fatica rende il bene e il male indistinguibili,
dove tutti sono colpevoli, vale per quello che mostra, ciò che la
letteratura come la buona coscienza dinanzi a ogni scena di miseria
preferisce ignorare: il fondo nero della miseria umana, dove la
devianza è norma e la sopraffazione regola. E vale per quel che non
dice, ma che essa suscita: pietà, orrore e compassione. Come dirà
Zola di Germinal, ma può valere per tutto questo grande
Meridiano: «opera di pietà, non di rivoluzione».
“alias domenica – il
manifesto”,17.1.2016
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