4.3.16

Poeti in Umbria. In lingua e in dialetto (S.L.L.)

Antonio Pecorelli
Risale alla primavera scorsa l'elegante libretto fuori commercio che Walter Cremonte ha voluto inviare come dono augurale ad alcune decine di amici, Come qualcosa che dura. Forse - è accaduto altre volte - le pochissime poesie e la traduzione che lo compongono rientreranno fra qualche anno in una più ampia silloge, ma oggi anche questo modo di raccoglierle e trasmetterle cospira ad impreziosirle. Quasi alla fine peraltro può leggersi una “poesia d'occasione”, quasi un luogo comune, Sulla tomba di Leopardi, che è una dichiarazione di poetica (“Come s'era detto / portare un fiore / e niente parole / per favore”): vi si conferma e approfondisce un'antica propensione ecologica del poeta perugino, la sua volontà di risparmiare le parole per garantirle, di raccogliere – addirittura – le parole lasciate cadere dagli altri. Qui si arriva, quasi, al silenzio e sulla parola prevale nettamente il gesto, come questo “portare un fiore”, uno solo. Ed è gesto, non canto, quell'incitare, quell'urlare che accompagna Orfeo nella poesia a lui intitolata e che lo invita a resistere, altrimenti “come faremo noi / a vincere la morte...”. E' gesto il guardare un cielo d'agosto, pieno di stelle, cogliere l'acqua nel cavo di una mano, è un gesto, solenne, quello che nella traduzione che suggella il libretto, da Lucrezio, compie Venere (“Cingendolo dall'alto col tuo corpo / divino...) per chiedere la pace. Insomma la poesia resta per Cremonte uno strumento, efficace ed illusorio insieme, per combattere il male e difendere il poco bene che c'è nella vita, per proteggere i nostri sogni ad occhi aperti, gli unici buoni, dall'annichilimento della morte, dal tempo che macina e dissolve, dalla stessa Memoria (quella con la maiuscola) che infama e scorna. Cremonte, nella nota conclusiva, si affida per spiegarsi ad una sorta di “elogio dell'intenzione” tratto da un racconto di Luigi Pintor per il quale “i buoni proponimenti sono un polline che non fiorisce mai, ma profuma l'aria”.
Il risultato di questa poetica sono testi ad alta intensità comunicativa, tra cui due liriche che mi sembrano capolavori, Onde e Un papavero. Una ragione di più per esprimere a Walter gratitudine e per sperare che, in un modo o nell'altro (penso alla potenza della rete!), i lettori dei suoi testi siano assai più numerosi dei destinatari del suo dono prezioso.
Un formato più grande, da antico quaderno scolastico, hanno i quattro libretti, anch'essi fuori commercio, che negli ultimi due anni ha diffuso Enzo Coli, i Quarantuno sonetti del novembre 2013, i Sonetti di primavera del marzo 2014 e i Sonetti del solleone dell'agosto dello stesso anno e infine nel giugno 2015 le Rime baciate di maggio per le quali recupera l'antico pseudonimo di Boldrino. Coli è stato docente di Grammatica Latina all'Università di Perugia e, nella cosiddetta “prima repubblica”, dirigente del Psi perugino, consigliere ed assessore per quel partito al comune di Perugia. Aveva pubblicato nel 2000 per Era Nuova di Perugia I sonetti di Boldrino, in cui aveva dato prova di saper efficacemente maneggiare l'endecasillabo e di sapere a volte ridare vita ad una struttura metrica dai più considerata obsoleta, specie nei sonetti d'amore. Non riusciva quasi mai a mantenere la promessa, ma certi suoi incipit facevano volare (“La casa scalda il sole da tre lati / e i nostri sguardi vanno all'infinito” oppure “Al nostro appuntamento c'era il sole” oppure ancora “Alla tua porta bussa primavera”). I nuovi sonetti si attestano sul versante della vita quotidiana: la famiglia, i successi scolastici e le passioni sportive dei nipoti, il mutare delle stagioni e persino la politica, nel ricordo di antiche passioni (“Quand'ero socialista giovincello / sognavo proprio di cambiare il mondo”) e nella prosaica attualità (le speranze, credo mal riposte, in un “premier novello”). C'è persino il tentativo eroico (e a mio avviso fallito) di dare nobiltà alla campagna elettorale regionale del 2015. Resta invece, come valore positivo, l'indubitabile abilità nel verseggiare e la volontà incrollabile di restituire alla poesia il carattere di “valore d'uso”.
Nel 2015 è uscito anche, per Fara Editore di Rimini, un nuovo libricino di poesia di Sergio Pasquandrea, Oltre il margine. L'autore, un quarantenne di origine pugliese, è insegnante a Perugia e persona dai molti interessi artistici. Recensendo lo scorso anno le sue Approssimazioni, salutavo il suo successo nella sfida che si era proposta, la poesia erotica, cioè l'arte di dire l'indicibile. Il nuovo libro non mi pare all'altezza del precedente: in molte poesie il sovrabbondare delle citazioni, dei riferimenti dotti, delle colte allusioni, degli shock verbali produce una sorta di manierismo privo di sorprese. Il talento dell'autore meglio si riconosce in certi incipit dal tono più dimesso (“Essere sveglio mentre tutti dormono / essere qui e muovere le dita...” oppure “Fra il termosifone e la lavastoviglie / secerne il cartone del latte / la sua tristezza da ippopotamo”) e lascia ben sperare per le prove che verranno.

Scriveva e recitava in pubblico sonetti in dialetto il ternano Antonio Pecorelli (1923-1986): una vita da tranviere, un impegno nel Pci, come segretario di sezione alla Gabelletta e per alcuni anni come consigliere comunale. Il pensionamento precoce (1975) lo mette in contatto con un poeta orvietano, Angelo Rossi, con cui fa coppia recitando versi nei teatri, nelle osterie, nelle librerie. A quasi trent'anni dalla morte il figlio Fabio ha voluto ricordarlo in un libro formato quaderno, Vestito blu, che porta in copertina l'immagine del poeta e che ad una scelta dei sonetti di Pecorelli accompagna una nota biografica, alcuni giudizi critici, commenti che contestualizzano le poesie. Sono assai vari i toni di Pecorelli, che ha come maestro riconosciuto Belli, del quale è tuttavia più bonario. Belliano è certamente il sonetto La mamma poretta, un gioiello di realismo ed ironia. Da mandare a memoria mi pare anche Lu callo de luglio (1966), che documenta i pruriti consumisti di certe famiglie di comunisti tutti di un pezzo; una pantomima appare Lu sposalizio de l'arriccato e ha passaggi da gran barocco Lu martirio de San Valentino. A me, però, chissà perché, piace citare Pollaro, che presenta nel suo attacco una suggestiva definizione del socialismo: “Che è lu Socialismo? È 'na parola / 'ndò che la libertà 'gni loco schiocca. / 'Ndò la patria te scalla e te conzola / pulcino sotto l'ala della biocca”.

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