A pochi giorni dalla resa
dei conti, le primarie nei due stati dell’Iowa e New Hampshire,
Donald Trump è ancora in testa ai sondaggi. Perché? Per capire
l’imprevisto successo di Donald Trump in politica dobbiamo fare un
passo indietro e, come ha suggerito la copertina di pagina99 dedicata
a «quanto costa la Casa bianca» (n. 2 del 2016) seguire le tracce
dei soldi.
Siamo abituati a pensare
che la politica americana funzioni così: un partito che seleziona il
candidato; un candidato in competizione con altri candidati, il
migliore (in termini di competenza, agenda, esperienza) vince; un
sistema mediatico che, appunto, media il rapporto tra il candidato e
il suo elettorato. La politica – meglio, il complesso
politico-mediatico – è un sistema e il candidato è un agente che
opera all’interno di questo organismo. È libero di posizionarsi
come vuole, eppure dipende particolarmente dal partito, dal livello
dei concorrenti, e dai media.
Il tutto emana una certa
razionalità primaria, come se il processo fosse guidato da un
principio di saggezza che garantisce la vittoria al miglior
candidato. In questa interpretazione della politica americana, Trump
è inspiegabile.
La politica americana
però non funziona così. È piuttosto un’attività
imprenditoriale. Ogni candidato è un imprenditore che si costruisce
la propria aziendina con tanto di staff, prodotti e mercato. I
fattori di questa nuova forma di politica non sono il partito, i
candidati e i media, piuttosto i soldi, le emozioni e la fama.
Oggi la raccolta di fondi
ha sostituito la struttura dei partiti. Un tempo, i soldi
finanziavano i partiti; oggi i partiti raccolgono soldi per i
politici. Persino le cariche istituzionali, tipo quelle di presidente
della Camera Bassa o capogruppo – come lo chiameremmo in Italia –
della maggioranza e della minoranza è funzione della capacità di
generare fondi per il partito. La capacità di raccogliere fondi e
finanziare campagne elettorali sempre più costose è l’elemento
fondamentale di qualsiasi candidatura.
Se il candidato è ricco,
è automaticamente considerato un buon candidato. Poiché ha fondi a
disposizione, è un candidato di fatto. Partecipa alla campagna
elettorale anche se il partito non vuole. Questo è il primo fattore.
Il secondo fattore è
legato alla costruzione del consenso. In una società
iper-relativista come quella americana, i fatti non costituiscono un
fattore di discrimine. I fatti assoluti non esistono perché non
esiste un criterio esterno che garantisce obiettività dei fatti.
Tutto è opinabile, anche il merito. La costruzione del consenso
passa piuttosto attraverso la generazione di emozioni. Chi parla alla
pancia dell’elettorato può costruire consenso lavorando sui
sentimenti della gente: siamo in pericolo; possiamo stare sicuri. C’è
da aver paura; è tutto sotto controllo. Le emozioni sono il criterio
di realtà: se mi sento in pericolo, ha ragione il candidato che dice
che siamo in pericolo.
Il terzo fattore è la
capacità, da parte di un candidato, di costruirsi la propria
audience; o, nel caso ne abbia già una, nel caso sia già famoso, di
usare questa fama per attrarre i media (che a loro volta portano
audience addizionale). La fama ribalta il rapporto tra politica e
media: i media non possono ignorare un candidato popolare. Nel gioco
del gatto con il topo, il candidato è diventato il gatto.
Riassumendo: la politica
americana si è disintermediata da partiti, meriti e media. Favorisce
candidati ricchi e famosi, che possono finanziare la loro campagna
elettorale, generare consenso basato su emozioni, e dialogare con
un’audience direttamente, senza filtri (a questo punto, un lettore
cinico potrebbe concludere che, almeno per quanto riguarda la
politica, l’Italia è più “avanti” dell’America). In una
politica che funziona così, Trump si trova a suo agio come il topo
nel formaggio.
Tutto qui? No, c’è
dell’altro. Trump ha indovinato il posizionamento: si presenta come
ricco e populista allo stesso tempo. Primo: si presenta come ricco
perché, come tale, non dipende dal potere finanziario. L’elettorato
ha umori complessi su questa dominanza dei soldi sulla politica: una
parte dell’elettorato l’accetta come un male inevitabile; una
parte la rifiuta. È la parte a cui guarda Trump. Il fatto è che un
candidato ricco può essere socialmente, culturalmente vicino agli
interessi dei ricchi, ma non necessariamente dipende, nel suo essere
politico, dai ricchi finanziatori. Il contrario è vero: se non sei
ricco, la tua candidatura dipende dai finanziatori. Questo è il
destino dei politici di professione. Secondo: Trump si presenta come
populista perché è un imprenditore. Il confronto tra lui e Mitt
Romney, sfortunato candidato Repubblicano alla presidenza nel 2012,
può aiutare: entrambi ricchi, entrambi nati nel mondo dell’economia.
Ma il secondo appare come un investitore che distrugge valore
collettivo per generare valore privato; il primo invece come un
imprenditore che genera valore collettivo mentre cerca di crearne per
se stesso.
Non è detto che Trump
vinca la presidenza e nemmeno la candidatura alla presidenza per il
suo partito. I partiti, gli altri candidati e i media, anche quelli
teoricamente dalla sua parte, faranno di tutto per fermarlo. Ma il
suo successo attuale non è un caso di irrazionalità collettiva;
piuttosto, ha radici profonde, è un segno della politica americana
che cambia.
Pagina 99 we, 23 gennaio
2016
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