Davvero benvenuta questa
raccolta (Un’alta passione, un’alta visione, ed. Il Ponte)
degli scritti politici di Capitini, che attraversano la fase più
attiva della vita del filosofo, dal 1935 (“ho visto che c’era
qualche cosa che dovevo fare”) agli ultimi testi di quel
fecondissimo 1968, appena prima della morte. E sacrosanta la
battaglia – culturale e politica – dei due curatori, Lanfranco
Binni e Marcello Rossi, volta a restituire a Capitini la qualifica di
“rivoluzionario”, che gli spetta e che è anche scritta sulla sua
tomba, e a chiarire una volta per tutte il carattere “socialista”
del suo liberalsocialismo: contro gli equivoci di natura azionista o,
peggio, socialdemocratica.
Questo libro ricchissimo
e a tratti commovente (si veda la pagina dedicata a Primo Ciabatti,
per esempio) è motivo di un vero, grande respiro di sollievo,
liberatorio: dopo le oscillazioni tra una prevalente e un po’ vile
tendenza all’oblio e qualche più rara rievocazione anche commossa
e coinvolgente, ma per lo più priva del necessario riferimento al
pensiero politico di Capitini, abbiamo infine l’opportunità di
fare i conti seriamente con questo pensiero complesso (in cui “tutto
si tiene e tutto si apre”, si dice nell’Introduzione). Che
è anche un fare i conti con noi stessi, con quello che di Capitini
ci è rimasto, al di là di una un po’ generica adesione
“sentimentale” al ricordo di questa persona straordinaria e del
suo esempio. E questo è tanto più vero quanto più – come dice
la Premessa – “i temi di Capitini (…) sono oggi attuali,
da conoscere, da studiare e da sviluppare”. I temi di Capitini: la
nonviolenza, l’omnicrazia, la compresenza… Ed è quanto mai
opportuno, allora, aver premesso agli “scritti politici”
(politici in un senso più stretto, ma dire così per Capitini è
quasi un controsenso: tutto, ogni singola pagina, è ispirato ad una
dimensione più alta, direi trascendente) un testo più complessivo
come Attraverso due terzi del secolo, un’autobiografia
intellettuale scritta da Capitini poco prima della morte: una sorta
di consuntivo esistenziale e di testamento morale. Giustamente questo
testo mirabile è collocato all’inizio, perché da qui, da questa
posizione, getta una luce e un senso su tutto quello che segue, e
tutto quello che segue (la vita, l’impegno e la battaglia
politico-religiosa, la teorizzazione) ritrova qui, in questo
ripensamento generale, il suo senso più compiuto e profondo. A un
certo punto, verso la conclusione di questo testo, di fronte alla
parola “compresenza” Capitini torna alla poesia, ricordando un
brano del suo Colloquio corale, quello che inizia con il verso
“La mia nascita è quando dico un tu”, nel quale, come lui dice,
si esprime la “tensione fondamentale” del suo “animo”: come è
apparso chiaro a chiunque di noi si sia accostato al suo pensiero o,
appunto, al suo animo. Questo splendido brano poetico è tutto
scandito da versi-frasi che si chiudono ognuno con il punto: come
verità inoppugnabili, che non ammettono replica (perché vengono
prima di una distinzione vero-falso, così come Antigone viene prima
di Socrate). Capitini, alla fine del suo percorso, ritorna alla
poesia (da cui era partito), leopardianamente consapevole del potere
di persuasione che ha la poesia – agendo su una sfera diversa dalla
pura razionalità – rispetto anche a termini teorici che
potrebbero, a volte, lasciarci perplessi. Come tutta la tematica
della compresenza (la compresenza dei morti e dei viventi),
meravigliosamente consolante ma tale da richiedere uno”scatto” di
natura religiosa che non tutti siamo disposti a riconoscere.
Ricordiamo, a proposito, una Nota decisiva di Walter Binni nel
suo La tramontana a Porta Sole: “In alcuni di noi, suoi
amici e collaboratori etico-politici, il problema ‘religioso’ e
quello stesso della nonviolenza non avevano il valore (del resto ben
coerente in lui) che avevano in Capitini”.
Ma di fronte a questa
dimensione del pensiero di Capitini, che contempla il “puro dopo”,
la nostra finitezza, sentiamo veramente che le nostre parole sono
insufficienti. Una cosa però vorrei dirla ancora: dalla lettura di
questo libro, degli scritti politici di Capitini, viene una forte
nostalgia “politica” per un tempo – e per le personalità che
quel tempo hanno abitato – davvero migliore: per la chiarezza delle
posizioni con le quali confrontarsi, o scontrarsi, così lontana
dall’amalgama indistinto da cui a mala pena riemergiamo. Anche noi,
la nostra “parte”: vogliamo tutti, e ne siamo tutti in qualche
misura partecipi, la nascita (o rinascita) di un partito della
sinistra, del lavoro, ma prevale, chissà perché, questa un po’
stucchevole polemica antiidentitaria, che sembra voler negare la
memoria – anche simbolica – di quello che siamo. E quello che
siamo ha le sue radici nel campo di un socialismo (nel senso che
tante volte ci ha ricordato il nostro Maurizio Mori di “socialismo
o barbarie”) libertario, o di un comunismo antidogmatico e
antiautoritario. Guai, ho letto da qualche parte, a parlare di “cosa
rossa”. Non dovrà più essere rossa neanche la bandiera agitata
(inconsapevolmente) dal proletario Charlot in Tempi moderni?
Ma già, viviamo in tempi postmoderni…
“micropolis”, 27
febbraio 2016
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