L'articolo
che segue è di qualche anno fa (fine 2011). Non sono un economista,
ma alcune delle argomentazioni proposte mi sembrano molto
convincenti. In particolare ho trovato interessante la riflessione
sulle privatizzazioni. (S.L.L.)
• Tagliare
le spese e aumentare le tasse può aumentare il deficit, se manca la
crescita.
• Dalle
liberalizzazioni al «nanismo» delle imprese, tutti i motivi che
hanno fatto regredire il paese
La questione del debito
pubblico è presentata, in Italia e in Europa, essenzialmente come
una questione di disciplina di bilancio, da risolvere tagliando le
spese e aumentando le imposte. In realtà, la crescita del debito
pubblico e la difficoltà a rifinanziarlo è connessa molto di più
alla scarsa crescita economica. Debito e deficit pubblici vengono
calcolati in percentuale sul Pii. Dunque, una stagnazione o un
decremento di quest’ultimo possono peggiorare i due indicatori,
indipendentemente dalle spese. Di più: la scarsa crescita è
collegata alla riduzione della competitività e al peggioramento del
debito commerciale e della bilancia dei conti con l’estero. La
minore capacità di pagare le importazioni con le esportazioni è uno
dei fattori che rende critica la capacità di finanziare il debito
pubblico sui mercati dei capitali.
Se il Giappone - debito
pubblico oltre il 200% e deficit/Pil all’8,3% - paga un interesse
sui titoli a dieci anni di poco superiore all’1%, non è solo
perché ha il pieno controllo della sua valuta, ma anche perché ha
il terzo attivo dei conti correnti al mondo, 150 miliardi di dollari,
e la migliore posizione patrimoniale con l’estero, tremila
miliardi. Al contrario, l’Italia ha una bilancia dei conti correnti
negativa per 79 miliardi (3,7% sul Pii), e una posizione debitoria
con l’estero di 549 miliardi. Infine, la riduzione della crescita e
delle esportazioni viene tipicamente compensata con l’aumento della
spesa pubblica, come prova il suo rigonfiamento in Italia a partire
dalla prima vera crisi post-bellica nel ’74-‘75.
Il punto, dunque, è
capire perché l’economia italiana, nel decennio precedente alla
crisi, è cresciuta meno e quindi l’ha subita maggiormente rispetto
a quasi tutti gli altri Paesi avanzati. E capire perché l’attivo
della bilancia commerciale è diventato negativo e la posizione netta
dell’Italia verso l’estero peggiora sempre di più sebbene il
nostro Paese sia il secondo nella Ue per apparato manifatturiero ed
export.
Sulle spiegazioni
economiche e politiche sembrano prevalere quelle morali. Luigi
Zingales, sul Sóle24ore, ha persino inventato un neologismo: la
ragione della mancata crescita sarebbe la “peggiocrazia”. Le
ricette? Facilitare i licenziamenti, ovviamente per liberarsi dei
peggiori, e privatizzare, per ridurre clientele e corruzione. Amenità
che fanno purtroppo presa, più delle spiegazioni serie.
Se il sistema industriale
italiano è in declino e rischia di perdere pezzi importanti è
proprio perché i politici hanno messo in pratica, dagli anni ’90,
quello che le grandi imprese chiedevano e chiedono: liberalizzazioni
(dal mercato dei capitali fino al mercato del lavoro) e
privatizzazioni. Se l’Italia non cresce, infatti, è per la
riduzione della base produttiva manifatturiera e il minore incremento
della produttività. Due fenomeni che derivano in buona parte dalla
distrazione di capitali dalla produzione domestica, cioè dalla
contrazione degli investimenti.
Dove sono andati questi
capitali? In primo luogo all’estero, come delocalizzazioni,
acquisizioni, joint-venture. Lo stock italiano degli
Investimenti destinati all’estero (Ide) è aumentato dai 60.2
miliardi di dollari del 1990 ai 578.2 del 2009. Molto più delle
esportazioni di merci, passate dal 19,1% al 29,1% del Pii. Gli Ide
italiani in uscita tra 2000 e 2009 sono cresciuti più della media Ue
(+221% contro +149%), rimanendo molto inferiori rispetto a quelli in
entrata (nel 2009 appena 400 miliardi di dollari). Dunque, le uscite
di risparmio italiano non sono compensate da entrate di capitali
produtti vi esteri. Ciò non solo peggiora la bi lancia dei conti, ma
obbliga a recupe rare capitali mediante il debito pubblico, la cui
quota detenuta all’estero è aumentata al 51% (contro il 15% del
Giappone), esponendo il rifinanziamento alla variabilità dei mercati
finanziari internazionali.
Anche la Germania
sfora il tetto Ue
Meno dell'Italia, ma
anche la Geimania comincia ada avere problemi con il debito pubblico.
Ieri L’ufficio statistico Destatis ha fatto sapere che a fine
settembra il debito pubblico è salito a 2.027 miliardi, con un
aumento ne l’ultimo trimestre dello 0,5%, owero 10,4 miliardi.
Teoricamente anche la Germania è nettamente al di fuori dei
parametri stabiliti a Maastricht: il deficit, infatti, sfiora il 5%,
mentre il debito è pari all’80% del Prodotto interno lordo. Al
contrario dell’Italia, però, la Germania non ha problemi di
finanziamento del debito e i tassi sui Bund decennali sono di poco
superiori al 2%, mentre quelli sulle scadenze brevi (3-6 mesi) sono
di poco superiori allo zero, tanto da costringere la Banca centrale
tedesca a acquistare (cosa che non può fare Bankitalia)
l’equivalente tedesco dei Bot, altrimenti le aste andrebbero
deserte. Destatis ha anche comunicato che dell'importo complessivo,
1.289 miliardi di debito sono imputabili allo Stato federale, mentre
i laendersono indebitati per 610 miliardi e i comuni di 129 miliardi.
Il fenomeno della
transnazionalità delle imprese è ben rappresentato dalla Fiat, che
negli ultimi dieci anni ha diminuito del 28,2% la produzione in
Italia, aumentandola del 16% in Sud America, del 10% in Europa
orientale e del 2,8% in Asia. Tuttavia, il fenomeno è sottovalutato,
perché le multinazionali giganti in Italia sono poche. Eppure, le
multinazionali italiane sono 20.050, poco meno di quelle francesi,
con circa 1,5 milioni di addetti e un fatturato di 389 miliardi di
euro nel 2009.
Ma anche le
privatizzazioni - l’Italia è qui seconda in Europa per valore
assoluto e quarta sul Pil - distraggono capitale dalla manifattura.
Molti imprenditori hanno trovato comodo spostare capitali dalla
manifattura ai monopoli pubblici privatizzati, le autostrade e la
sanità; settori che non esportano e dove si possono raccogliere alti
profitti grazie ai prezzi di monopolio, al riparo dalla concorrenza
internazionale. Inoltre, le privatizzazioni sono riuscite ad
eliminare o indebolire le poche aziende di dimensioni internazionali
che operavano in settori tecnologici di punta, come le
telecomunicazioni, penalizzando ulteriormente la base produttiva. Le
privatizzazioni che Confindustria rivendica oggi sono quelle delle
utility (acqua, elettricità, trasporto), che offrono nuove fonti di
rendita monopolistica, piuttosto che quelle dei colossi industriali
come Eni, per cui nessun privato vuole rischiare gli ingenti capitali
richiesti.
Un terzo fattore di
rallentamento della crescita e della competitività è il nanismo
delle imprese, ricondotto al “ritardo” del sistema industriale
italiano. In realtà, le ridotte dimensioni medie delle imprese
italiane sono derivate dall’applicazione particolarmente intensa
dell’organizzazione del lavoro toyotista, basato sulla
esternalizzazione di pezzi dell’attività produttiva. Proprio
l’esternalizzazione massiccia in piccole e piccolissime imprese
rende più facile delocalizzare da parte delle grandi imprese che
governano le filiere. Il punto è che le esportazioni di capitale
all’estero non comportano un’estensione della base produttiva
complessiva delle imprese, ma una redislocazione nello spazio,
funzionale solo all’aumento dei profitti. Un aumento che non
avviene mediante l’incremento dell’investimento di capitale per
addetto (più produttività con l’innovazione di processo e di
prodotto), ma tramite la diminuzione dei costi.
La ragione delle
esportazioni di capitale risiedono dunque, più che nella conquista
di nuovi mercati, nel divario salariale tra centro e periferie
dell’economia mondiale. Gli Ide permettono sia di ridurre i salari
domestici (aumentando la disoccupazione), sia di sfruttare lavoratori
meno pagati all’estero. Il costo del lavoro in Brasile è il 42% di
quello sostenuto in Italia, in Polonia il 32%, in Romania il 13%.
Inoltre, le multinazionali italiane esportano ben il 40% del
fatturato delle controllate estere, spesso verso Italia. Non è un
caso che la principale voce nelle importazioni italiane non sia il
petrolio o il gas, malgrado l’Italia ne sia priva, ma le
automobili. Modelli di particolare successo in Italia, come la Panda
e la Cinquecento, sono prodotti dalla Fiat all’estero e importati.
Banche,
speculazione finanziaria e sistema euro non sono le cause della crisi
L’esportazione di
capitale e lo spostamento verso la rendita monopolistica non solo
peggiora la bilancia commerciale, ma provoca la progressiva riduzione
dell’accumulazione di capitale produttivo. Mentre le imprese si
arricchiscono grazie agli alti profitti, i lavoratori e l’economia
del Paese nel suo complesso regrediscono e si impoveriscono.
Banche, speculazione
finanziaria e modalità di funzionamento del sistema euro hanno un
ruolo importante nella crisi del debito. Ma non sono queste “le
cause” della crisi. Il tentativo di superare la caduta generale del
saggio di profitto, ripresentatasi alla metà degli anni ’70, ha
impresso un impulso fortissimo alla transnazionalizzazione delle
imprese, che ha però prodotto una contraddizione tra capitale e
Stato-nazione. La crisi del debito pubblico, il conflitto tra la Ue e
i singoli stati, nonché la nomina di governi “tecnici”, come
quello di Monti, ne sono oggi la manifestazione matura.
“il manifesto, 28
dicembre 2011
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