Mc Donald’s vende molti
più panini in Francia che in Lussemburgo, ma la sua filiale
lussemburghese registra profitti ben più elevati. Questo perché i
ristoranti francesi della catena di fast food per utilizzare i locali
che li ospitano e gli arredi al loro interno pagano un considerevole
affitto all’azienda che ne è proprietaria, che poi sarebbe Mc
Donald’s Lussemburgo. Un circolo vizioso privo di senso? Non
proprio. Perché l’aliquota fiscale sui redditi delle aziende nel
Granducato è molto più bassa di quella francese, quindi spostando i
suoi profitti da un Paese all’altro la multinazionale americana
dell’hamburger risparmia un bel po’ in tasse.
Ecco un classico esempio
di “ottimizzazione fiscale”, ovvero di strategia teoricamente
legale ma sostanzialmente scorretta con cui un’azienda presente in
diversi Paesi sfrutta le lacune nelle regole del commercio estero per
pagare meno tasse possibile. L’abitudine è radicata nei meccanismi
industriali e finanziari da decenni, ma da qualche anno a questa
parte è diventata uno dei grandi nemici della comunità
internazionale, determinata a mettervi fine.
Nel novembre scorso, ad
Antalya, i leader del G20 hanno sottoscritto un piano in quindici
punti per lanciare l’offensiva a livello mondiale, e una decina di
giorni fa, nei saloni parigini dell’Ocse, rappresentanti delle
autorità fiscali di 31 Paesi hanno firmato il primo accordo
multilaterale di implementazione, che riguarda lo scambio automatico
di informazioni. «C’è un accordo politico molto forte, che ora si
sta traducendo in pratica, definendo metodi e regole concrete»,
spiega a pagina99 Pascal Saint-Amans, direttore della divisione per
le politiche fiscali dell’Ocse, che dal 2011 coordina le operazioni
su questo fronte, «anche la Commissione europea si sta muovendo per
inserire la questione nella sua regolamentazione fiscale. Il
messaggio che si sta facendo passare è che il processo è cominciato
e avanza da adesso, subito, e che chi non vuole adeguarsi sarà
presto costretto a farlo». Un attivismo che suscita il plauso di
gruppi e associazioni che da anni si battono contro le pratiche
fiscali scorrette, che ora hanno, nelle parole del direttore
esecutivo del Tax Justice Network John Christensen «motivo di essere
ottimiste».
Certo, per far davvero
sparire le centinaia di trucchetti fiscali oggi in uso ci vorrà ben
più di un accordo tecnico con poche decine di firmatari, tra cui
spicca l’assenza degli Usa. Ma quantomeno questi provvedimenti,
secondo i due esperti, sono segnali evidenti di un cambio di
mentalità diffuso. «La pianificazione fiscale era diventata parte
del business model per numerose aziende, una forma di
creazione di valore, mentre dovrebbe essere una funzione di supporto
e niente più», dice ancora Saint-Amans. «Era una pratica normale»,
prosegue, «tutti lo facevano e nessuno diceva niente, mentre ora le
aziende saranno spinte a cambiare se non vogliono ritrovarsi sotto la
lente di ingrandimento. Poi magari resterà qualche gruppo più
aggressivo su questo fronte, o qualche nicchia o scappatoia di cui
non ci siamo inizialmente accorti, ma il contesto sarà diverso».
Il grande motore di
questa inversione di tendenza è stata senza dubbio la crisi
economica e finanziaria: con indebitamento in crescita, deficit da
contenere ed entrate fiscali già limate dalla recessione, i governi
non potevano più restare indifferenti di fronte a queste pratiche.
Il costo per i loro sistemi fiscali era troppo elevato, qualcosa tra
i 100 e i 240 miliardi di dollari all’anno a livello globale,
secondo una stima Ocse dell’ottobre 2015 che i suoi stessi autori
definiscono «prudente» e arrotondata al ribasso. «Negli ultimi 40
anni i grandi gruppi hanno sempre barato sulle tasse, e non era mai
stato fatto niente di concreto per evitarlo. Ma oggi sulla politica
c’è una forte pressione, anche da parte dell’opinione pubblica,
sia da destra sia da sinistra», sottolinea Christensen,
«progressisti e conservatori dicono che non è più possibile che le
multinazionali non paghino quanto dovrebbero. E non ci sono più
scuse che i governi possano usare per giustificare il fatto di non
tassare queste aziende».
In questo clima sono
partite sia la mobilitazione internazionale, che ha scelto il G20
come veicolo principale, sia le azioni autonome di alcuni Stati, che
hanno iniziato a chiedere più trasparenza sulle strutture e attività
societarie, ma anche a cercare di farsi ripagare almeno parte delle
tasse eluse per decenni. Numerose giurisdizioni hanno aperto
inchieste per omessa dichiarazione, inviato verbali e contestazioni
per mano della polizia tributaria, o più discretamente intavolato
mediazioni nella speranza di ottenere accordi di condono in cambio di
risarcimenti. L’Italia ci è riuscita con Apple, che a fine 2015 ha
accettato di versare 318 milioni di euro all’Agenzia delle Entrate
per sanare mancati versamenti dell’Ires tra 2008 e 2013, in quello
che la procura titolare del caso ha definito un «risultato
importante» per le casse statali. Si è dovuta invece accontentare
di una vittoria a metà la Gran Bretagna nel contenzioso con Google,
chiuso con un deal che impone all’azienda un pagamento di
appena 130 milioni di sterline per dieci anni di imposte aggirate,
quando il conto totale avrebbe potuto sfiorare il miliardo,
considerando il giro d’affari del motore di ricerca e dei suoi
prodotti collegati nel Paese.
Ora però, argomentano
gli esperti del Tax Justice Network, quello che serve è andare oltre
il lavoro bilaterale sui singoli casi, e passare a una revisione
completa della logica di base del sistema fiscale internazionale, in
cui «una multinazionale non è trattata come una singola azienda, ma
come un insieme di aziende diverse, attive in diverse giurisdizioni,
ciascuna delle quali è tassata separatamente». Così, spiega ancora
il direttore Christensen, «Mc Donald’s può fare finta che i suoi
profitti siano realizzati in Lussemburgo, anche se vende pasti e
bibite in Francia, e altri possono nasconderli montando strutture
societarie fittizie alle Cayman o chissà dove. È un sistema
assurdo, del tutto superato, che non funzionava nel secolo scorso e
funziona ancora meno adesso. C’è stata la globalizzazione
dell’economia, ma non si sono dati agli Stati gli strumenti per
mantenere la loro sovranità fiscale».
Pagina 99 we, 6 febbraio
2016
Nessun commento:
Posta un commento