1.6.12

Giovanni Pascoli (di Maurizio Cucchi)

Il centenario della morte di Pascoli, ai primi di aprile, è trascorso senza alcun clamore e alcuni giornali hanno totalmente trascurato la ricorrenza. A quanto mi risulta nessuno ha pensato a costruire intorno alla figura del poeta romagnolo quegli eventi - mostre, convegni, spettacoli - che talora ravvivano l'interesse, anche perchè le risorse sono scarsissime e quelle per gli eventi le ha sequestrate il Capo dell'Esercito per la parata del 2 giugno. Eppure l'opera di Pascoli è profondamente compenetrata con la storia dell'Italia unita, più di quella di molti altri poeti e narratori e la qualità della sua poesia è particolarmente alta. Credo che le ragioni le sintetizzi ottimamente il Maurizio Cucchi, in un suo intervento su "La Stampa" del 5 aprile scorso, che condivido pressoché in toto e qui posto. (S.L.L.)
La grandezza della poesia di Giovanni Pascoli è sempre più evidente e indiscutibile. La scuola, in effetti, non ci ha molto aiutato a comprenderlo bene, insistendo troppo sulla vicenda biografica e sulla delicatezza patetica dei sentimenti. L'autore del Fanciullino è stato un genio della parola poetica nelle sue forme più diverse e un autore dalla sensibilità acutissima capace anche di esprimersi in zone di mistero e di ombra della psiche, non senza accenni di una morbosità sinistra e spesso crudele. La sua parola è al tempo stesso esattissima e vibrante, vertiginosa, capace di cogliere l'emozione del presente in cui ci invita a sostare, a volte, in alcuni dei suoi versi più noti e più belli, come in quel capolavoro che è L'ora di Barga; ma il suo desiderio di tornare a cullarsi in una sorta di grembo eterno, nel suo «cantuccio», è anche un continuo insistere del passato, le cui tracce sono ben visibili anche nella sottile, programmatica regressione a quella dimensione infantile a cui spesso, ambiguamente, si affida.
In ogni caso è un poeta della complessità, come dovrebbe, in fondo, essere ogni poeta e come lui ha saputo essere anche nei suoi componimenti dall'andamento più esemplarmente semplice e lineare. Una complessità, peraltro, che non si affida mai a una pronuncia oscura, ma che si realizza nei modi di una leggibilità apertissima. Giovanni Pascoli ha saputo parlare - lui dottissimo e latinista - in un linguaggio fortemente legato all'esperienza comune e quotidiana, e in questo è stato già nettamente novecentesco, in quanto poeta «inclusivo», e dunque in grado di dare dignità poetica a situazioni e parole apparentemente «impoetiche». Ed è stato in questo anche un grande sperimentatore, un innovatore imprescindibile.
Ma tanti sono i motivi che ci possono indurre a rileggerlo, a farlo regolarmente. Per esempio la sua capacità di coinvolgere emotivamente il lettore, di provocarlo e indurlo a commozione. La sua è una sottile voce insinuante che penetra a fondo e ci turba. Ci raggiunge e ci scuote internamente un po' come la musica del suo quasi coetaneo Giacomo Puccini. Sembra ammantarsi di dolcezza e di conforto, ma sul più bello colpisce crudelmente, perché è una voce sempre inquieta.
E a proposito di crudeltà, mi viene spesso in mente una poesia delle più note e non sempre giustamente apprezzate, e cioè Valentino, dove l'aspetto tenero del ritratto offre - quasi senza parere - dettagli di passaggio quasi cruenti. Una sorta di crudeltà indiretta, ma che pure ci raggiunge. Come, in modo più netto, ci arriva da quel capolavoro che è Digitale purpurea: «il fiore ha come un miele / che inebria l'aria; un suo vapor che bagna / l'anima d'un oblìo dolce e crudele». Appunto, dolcezza e crudeltà coesistenti nella grande poesia del Pascoli.

Nessun commento:

statistiche