2.6.12

Heaney: “io, Pascoli e gli aquiloni” (Mario Baudino)

Séamus Heaney, Premio Nobel 1995
“Ho l’impressione che non abbia molti lettori, al di là degli studiosi» ci dice Séamus Heaney, a conclusione del convegno organizzato dall’Università di Bologna su Giovanni Pascoli, la manifestazione più ambiziosa tra quelle per il centenario della morte, che è passato un po’ sottotraccia. Non qui a Bologna, dove Pascoli ebbe cattedra, e dove sono confluiti esperti da tutto il mondo. Tra loro anche il poeta irlandese vincitore del Nobel per la letteratura nel 1995, che da tempo lavora sulle sue poesie, e ne ha tradotte parecchie. I loro temi non sono del resto così lontani: se si leggono alcuni dei versi più famosi di Heaney, per esempio quelli di Digging (Scavando), un testo degli anni Sessanta, sembra quasi di sentire una risonanza pascoliana: «E mi torna in mente l’odore della terra / delle patate, lo scalpiccio della torba fradicia, / i colpi risoluti della vanga tra le radici vive».
Sta parlando di suo padre. «Ma io non ho la vanga per seguire uomini così», conclude. Ha invece la scrittura, la costruzione di mondi, che sa sprofondare in un modo diverso nella torba, fra sepolte appartenenze remote, strati geologici e storici. Heaney all’epoca non conosceva Pascoli. Lo incontrò per caso, parecchi anni dopo, a Urbino. Secondo le sue parole, «gli sono legato da un pezzo di spago»: quello dell’aquilone, ovviamente. Era il 2001, e la celebre poesia gli venne sottoposta dopo che aveva parlato di un componimento di Yeats sulla corte urbinate. Per uno di quei cortocircuiti tipici della letteratura, gli parve di riconoscere nei versi pascoliani qualcosa che aveva scritto anche lui, rievocando un giorno dell’infanzia in un campo dell’Ulster dove con i suoi fratelli guardava il padre che stava facendo volare, appunto, un aquilone. «Con l’occhio della mente vedo sempre noi tutti con la stessa chiarezza con cui vedo quella frotta di scolari che Pascoli ricorda nella sua poesia», ha spiegato nella conferenza dell’altro giorno.
Fu l’inizio di una storia poetica che non si è mai interrotta. Da allora, prima per caso poi perché ormai le sollecitazioni si moltiplicavano, ha continuato a tradurre. I poemi di Myricae lo riportavano alla sua stessa vita di ragazzo di campagna, a ripercorre un filo «teso tra l’Italia e l’Irlanda». Ma che cosa l’ha conquistata? I temi o la trama linguistica e fonetica, lo scavo che Pascoli fa nel linguaggio? «Non conosco abbastanza l’italiano per affrontare la sua tessitura linguistica. Mi sono focalizzato più sui temi, su come costruisce o riconosce il suo mondo. È un poeta straordinariamente pre-moderno. Ma non per questo lontano. Non so, e non mi interessa neppure, quale sia, se c’è, il suo “messaggio”. Dico che è un gran poeta, con una piega meditativa e filosofica, uno sviluppo estetico e intellettuale, un groviglio emotivo che conferisce a gran parte di ciò che ha scritto un’energia sotterranea».
Cita un testo, L’ultima passeggiata . «Per una felice coincidenza, gran parte del suo territorio nativo è terreno familiare anche per me. In modo, per dir così, antropologico. Molte delle scene che evocano gli usi e costumi della vita rurale nella Romagna dell’Ottocento erano ancora vive e attuali nell’Irlanda della metà del Novecento». Trova che la descrizione dei campi, dei buoi, dell’improvviso trillare di un’allodola siano «rese in delicatissima miniatura, come se fossero un Libro delle Ore». Un libro di preghiera? Heaney preferisce porre l’accento sulle immagini, e su ciò che lo fa risalire, ad esempio a Ezra Pound e all’Imagismo, il movimento britannico d’inizio secolo, una forma, spiega, di crepuscolarismo.
Pascoli però non ha mai influito direttamente sulla poesia europea. «No, questo no. Il suo ruolo non è certo paragonabile a quello di un D’Annunzio. Però è un gran poeta, semmai da riscoprire. Anche per la sua sterminata cultura, per tutto il materiale di studio che ci ha lasciato, per i versi latini». Heaney ha tradotto Dante e Virgilio, si è immerso «da irlandese» in una grande tradizione comune, senza la diffidenza che nutre invece per molta poesia «inglese» che, dice, «spesso ha il tono della vittoria». Nulla di simile in Pascoli, dove semmai c’è una riduzione alle cose minime. Ma a questo punto, la domanda si impone: è sufficiente scavare, per la poesia? Scavare nelle parole come la zappa scava nella terra? «Tutto ciò che riguarda la poesia ha a che fare col linguaggio. E oggi, proprio oggi, con tutti i problemi di comunicazione che ci ritroviamo ad affrontare, penso ci sia molto bisogno di poesia».
Anche se pare restare ai margini, magari ricca ma isolata, circoscritta. «I poeti e la poesia sono sempre stati minacciati, direi a rischio di estinzione. E non si sono estinti mai. Ogni tanto la storia fa clic, e saltano fuori Dante, Shakespeare, con i loro amici e seguaci». Oppure Pascoli? «Anche lui, certamente». Qual è tra le sue poesia quella che l’ha colpita di più? «Le dico quella che è stata più facile da tradurre: La cavallina storna . È incantatoria, ti incalza come una ballata popolare e nello stesso tempo ha qualcosa di inevitabile. So che in Italia la conoscete quasi tutti». Imparata a scuola. E forse per questo presa molto, molto sottogamba. «Siamo alle solite. E invece chiedere a una cavalla di rispondere con un nome che non può ovviamente pronunciare se non con un nitrito, bene, è davvero una grande idea».

"La Stampa", 5 aprile 2012

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