Un rivoluzionario nella città dei compromessi
Mario Mineo, un nostro vecchio compagno
Si è spento ieri notte a Palermo il compagno Mario Mineo; aveva 67 anni e soffriva da tempo di cuore. La morte è venuta d'improvviso, risparmiandogli ogni assenza di lucidità.
Mario é stato un grande educatore, con il quale alcuni di noi hanno percorso un breve e inutilmente tormentato tratto di strada. Educatore non soltanto perché era un professore raro, di quelli che i ragazzi riconoscono di colpo e cui si rivolgono per la vita, ma perché era un comunista, meglio un leninista intelligente e rigoroso, che non venne mai a compromessi con nulla e nessuno in una città dove i compromessi si sprecano, e molte strade gli erano offerte.
Mario Mineo non ne percorse nessuna; non volle neppure diventare il notabile politico onesto che sarebbe stato. Era un rivoluzionario nel senso integro e pessimista della parola; non credeva né a mezze analisi, né a mezze soluzioni. Aveva fondato il Circolo Lenin, più quadri che fluttuanti assemblee, domandava una disciplina di lavoro, di studio, di modo di essere, che negli anni ruggenti parve anche restrittiva. Fondò una rivista e le edizioni Praxis, e recentemente aveva dato alle stampe un «saggio sulla teoria marxista delo stato», Lo stato e la transizione, Unicopli, Milano 1987.
Quand'era gruppo politico, il «Manifesto» cercò un'unità col Circolo Lenin. Non fu un episodio del quale andare orgogliosi. Noi non eravamo leninisti, pensavamo (come pensano tuttora quelli di noi che ancora si occupano di questi problemi) che il leninismo fosse la teoria d'una fase, d'un momento storico — specie una teoria del partito e dello stato non più proponibili. Ma Mineo accettò di lavorare con noi. E con noi lavorò al giornale, per alcuni anni, suo nipote, Corradino, col quale è rimasta una lunga amicizia. Mario non condivise mai quel tanto che c'era di ottimista nella nostra lettura di quegli anni; ricordo che insisteva sulla «crisi di regime» piuttosto che sulla «crisi di sistema». (Oggi direi che era più una crisi di sistema che una crisi di regime, ma non nel senso che noi davamo allora a quelle tre parole). La convivenza fu difficile, perché noi in quell'incontro «cercavamo di far politica», mentre per Mario Mineo la politica era cosa più ambiziosa e meno precipitosa.
Finì presto e male ; il nostro gruppo non fu esente dai settarismi e le manovre che funestarono la nuova sinistra. Non ci rispettavamo, non ci davamo reciprocamente pace, non consegnavamo mai alla verifica degli anni le divergenze, che potevano essere una ricchezza e trattavamo come un impaccio. Cercammo Mario Mineo per quel che egli non era, non gli perdonammo di non essere come noi ed egli, forse, non ci perdonò di non essere come lui.
Negli ultimi mesi tornammo a parlarci, come chi si riconosce a distanza riconoscendo gli errori inutili, i colpi inutilmente inferti, la dissipazione della politica breve. La sua morte è un dolore e un'amarezza.
"il manifesto", 4 giugno 1987
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