3.6.12

La "Digitale purpurea" di Pascoli con un commento di Giancarlo Pontiggia

Ripropongo qui la Digitale Purpurea, l'ambiguo capolavoro incluso nei Poemetti (1900) di Giovannii Pascoli, cui segue una parte del commento che ne pubblicò il poesta e critico Giancarlo Pontiggia sulla rivista "Poesia", nel marzo 1988. (S.L.L.)
Digitale purpurea
I
Siedono. L’una guarda l’altra. L’una
esile e bionda, semplice di vesti
e di sguardi; ma l’altra, esile e bruna,

l’altra… I due occhi semplici e modesti
fissano gli altri due ch’ardono. «E mai
non ci tornasti?» «Mai!» «Non le vedesti

più?» «Non più, cara.» «Io sì: ci ritornai;
e le rividi le mie bianche suore,
e li rivissi i dolci anni che sai;

quei piccoli anni così dolci al cuore…»
L’altra sorrise. «E di’: non lo ricordi
quell’orto chiuso? i rovi con le more?

i ginepri tra cui zirlano i tordi?
i bussi amari? quel segreto canto
misterioso, con quel fiore, fior di…?»

«morte: sì, cara». «Ed era vero? Tanto
io ci credeva che non mai, Rachele,
sarei passata al triste fiore accanto.

Ché si diceva: il fiore ha come un miele
che inebria l’aria; un suo vapor che bagna
l’anima d’un oblìo dolce e crudele.

Oh! quel convento in mezzo alla montagna
cerulea!» Maria parla: una mano
posa su quella della sua compagna;

e l’una e l’altra guardano lontano.

II
Vedono. Sorge nell’azzurro intenso
del ciel di maggio il loro monastero,
pieno di litanie, pieno d’incenso.

Vedono; e si profuma il lor pensiero
d’odor di rose e di viole a ciocche,
di sentor d’innocenza e di mistero.

E negli orecchi ronzano, alle bocche
salgono melodie, dimenticate,
là, da tastiere appena appena tocche…

Oh! quale vi sorrise oggi, alle grate,
ospite caro? onde più rosse e liete
tornaste alle sonanti camerate

oggi: ed oggi, più alto, Ave, ripete,
Ave Maria, la vostra voce in coro;
e poi d’un tratto (perché mai?) piangete…

Piangono, un poco, nel tramonto d’oro,
senza perché. Quante fanciulle sono
nell’orto, bianco qua e là di loro!

Bianco e ciarliero. Ad or ad or, col suono
di vele al vento, vengono. Rimane
qualcuna, e legge in un suo libro buono.

In disparte da loro agili e sane,
una spiga di fiori, anzi di dita
spruzzolate di sangue, dita umane,

l’alito ignoto spande di sua vita.

III
«Maria!» «Rachele!» Un poco più le mani
si premono. In quell’ora hanno veduto
la fanciullezza, i cari anni lontani.

Memorie (l’una sa dell’altra al muto
premere) dolci, come è tristo e pio
il lontanar d’un ultimo saluto!

«Maria!» «Rachele!» Questa piange, «Addio!»
dice tra sé, poi volta la parola
grave a Maria, ma i neri occhi no: «Io,»

mormora, «sì: sentii quel fiore. Sola
ero con le cetonie verdi. Il vento
portava odor di rose e di viole a

ciocche. Nel cuore, il languido fermento
d’un sogno che notturno arse e che s’era
all’alba, nell’ignara anima, spento.

Maria, ricordo quella grave sera.
L’aria soffiava luce di baleni
silenzïosi. M’inoltrai leggiera,

cauta, su per i molli terrapieni
erbosi. I piedi mi tenea la folta
erba. Sorridi? E dirmi sentia: Vieni!

Vieni! E fu molta la dolcezza! molta!
tanta, che, vedi… (l’altra lo stupore
alza degli occhi, e vede ora, ed ascolta

con un suo lungo brivido…) si muore!»



Giancarlo Pontiggia
Il commento
Che cosa rappresenta la digitale? Molti commentatori hanno voluto spiegarlo (letteralmente, metaforicamente, allegoricamente, simbolicamente). Ma è nella natura del poemetto che la rivelazione resti occulta. Maria "vede ora". Che cosa? Forse che Rachele non esiste più, che essa è una revenante, un'apparizione, un fantasma? Ma sono apparizioni anche le memorie della seconda stanza; e sono apparizioni anche i versi (fantasma e fantastico hanno la stessa radice) che scintillano in noi come pietre preziose. Per Pascoli scrivere significa evocare, chiamare a sé. Le figure di ripetizione, i parallelismi, le riprese a cui ricorre ossessivamente ("L'una... L'una... ma l'altra... l'altra"; "Vedono... Vedono..."; "oggi: ed oggi"; "Vieni! / Vieni!") non servono solo a designare una forma, uno stile: sono il segno di uno sforzo, di una fatica del chiamare. Da dove? Dalle stanze del passato, perché risorgano. Come in un rituale ipnotico o in un formulario religioso, Pascoli pronuncia il nome, lo riprende, pazientemente. Crea una nenia fabulatoria, una cantilena che imprigioni le cose, le renda di nuovo a noi, mentre risalgono.
Osserviamo il ritmo dei versi finali: liquido, sonnambolico, onirico. Rachele cede a una suggestione, è come se fosse risucchiata, attratta. "Sola / ero"; "Il vento / portava" (con gli enjambement intensissimi che dilatano la visione verso dove? Ogni poesia, in Pascoli, è una discesa: verso le onde dello Stige; o verso quelle del sonno, oscure e torbide; o della memoria, folte e silenziose); "L'aria soffiava".
Osserviamo anche: "i molli terrapieni / erbosi": ancora il senso del passo che affonda, il procedere molle nei luoghi della semiveglia, delle terre di nessuno fra notte e alba estiva, sulle soglie di quelle porte di corno o avorio da cui, secondo Virgilio (Aen., VI, 893-896) uscivano le vere e le false ombre. Ma non è forse, questo che batte, lo stesso vento di Aquilone (che, con Digitale purpurea e Suor Virginia costituisce una specie di trittico dei luoghi conventuali)?: "tra le morte foglie / che al ceppo delle querce agita il vento".
Sono due le visioni che ritmano questa lirica: una è quella della seconda stanza, il tramonto d'oro dentro cui si spegne castamente il monastero; l'altra è la passeggiata notturna e solitaria di Rachele nell'orto chiuso. La prima è una visione d'innocenza, dominata dall'azzurro del cielo e dell'incenso, dal bianco delle suore; la seconda di mistero, torbida, languida, dominata dal verde pericoloso delle cetonie e dai lampi rabidi dell'aria. Tra le due, il pianto "senza perché" (v. 42) delle ragazze: su quel pianto apparentemente immotivato incombono le spighe della digitale.
Chiediamoci: ciò di cui parla Rachele è davvero un'esperienza amorosa? Pascoli allude davvero alla conoscenza d'amore? Niente lo afferma, salvo i brividi che sentiamo leggendo. Naturalmente sarebbe facile ricorrere a uno studio delle ricorrenze lessicali: quei "molli" terrapieni che ricordano l'urna "molle e segreta" del Gelsomino notturno; o il chiuso orto che è memoria dell'hortus conclusus del Cantico dei cantici biblico. Ma quei brividi si situano in una regione più vasta e forte, che è quella della prima adolescenza, quando ogni conoscenza appartiene ai regni del nuovo e della scoperta: in Digitale purpurea Pascoli ha voluto cantare una forma, l'eccitazione adolescenziale nell'accostarsi al giardino dei piaceri ancora ignoti (perciò con i suoi fiori mostruosi, i suoi morbosi incubi, le sue solitane e oziose allucinazioni), quel febbrile stato di esaltazione e di fatalità che accompagna, irresistibile cometa, la sua ricerca.

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