3.7.12

"Ladri di terra". Un moderno colonialismo. La guerra tra contadini e capitale

Da un più ampio articolo di Giuliano Battiston (sul “manifesto”) recupero la prima parte che, commentando un libro di Stefano Liberti, ne espone le verità essenziali, segni di una regressione del mondo verso nuove forme di colonialismo, perfino più gravi che in passato. (S.L.L.)  


Il reportage è un genere caduto in disuso: troppa fatica costruire un percorso coerente e solido, rinunciare all'effimero per un'unica, costante idea di fondo, macinare chilometri, accumulare materiali e interviste, per poi trasformare il tutto in una forma compiuta. Soprattutto, troppa fatica partire da domande vere, piuttosto che da pretesti per ribadire le proprie certezze. Anche per questo al reportage, all'inchiesta sul campo, allo scavo e al «carotaggio» è andata sostituendosi la scorciatoia dell'invettiva e della denuncia, il moralismo consolatorio, oppure il travestimento, reale o simbolico, con cui penetrare occasionalmente in situazioni ritenute altrimenti impenetrabili.
Land grabbing. Come il mercato delle terre crea il nuovo colonialismo (minimum fax, pp. 244, euro 15), l'ultimo libro di Stefano Liberti - giornalista del manifesto già vincitore del premio Montanelli per A sud di Lampedusa - restituisce dignità al genere. Perché costruito nel tempo, lasciando che i materiali fossero filtrati dal setaccio narrativo, e perché rivendica la parzialità di uno sguardo: quello di chi rinuncia in modo esplicito all'esaustività, per proporre un percorso persuasivo proprio perché declinato secondo una prospettiva personale, intorno alla consapevolezza che, se qualche interpretazione si può dare di «un fenomeno destinato a cambiare gli equilibri di buona parte del Sud del mondo», può venire solo «dai dati raccolti sul campo».

Governi complici o inetti
Quello di Liberti è dunque un viaggio. Che comincia ad Awassa, nel cuore della Rift Valley, trecento chilometri a sud di Addis Abeba, in un pezzo di quell'Etiopia che è diventata la «meta di businessmen e avventurieri provenienti da mezzo pianeta» da quando, nel 2007, il governo locale ha «lanciato un piano di affitto a lungo termine di una parte dei suoi terreni a investitori intenzionati a farli fruttare». Una politica attuata senza alcuna discussione pubblica, con l'obiettivo di «riempire le casse dello stato di denaro straniero da reinvestire», e prontamente accolta da quei paesi (in primis quelli del Golfo) ricchi di liquidità ma poveri di cibo: di fronte alla crisi del 2007/2008, agli aumenti dei prezzi dei prodotti alimentari di base e ai meccanismi protezionisti e al blocco delle esportazioni adottati dai paesi produttori, questi paesi hanno voluto «garantirsi a qualunque costo la sovranità alimentare» attraverso una esternalizzazione controllata, producendo il necessario ma su terre altrui, più fertili e a basso costo.
Per farlo, come denuncia Yefred Myenzi, direttore di HakiArdhi, un centro di ricerca che si occupa di diritto alla terra a Dar er Salaam, capitale della Tanzania, occorrono però governi complici o inetti, ministri dell'Agricoltura disposti a trasformarsi in piazzisti per affittare terre preziose a meno di un dollaro l'ettaro (in alcuni casi anche gratis, per un certo periodo), pur di assicurarsi l'«investimento internazionale». Che può venire anche da fondi speculativi, grandi multinazionali, fondi pensione, da tutti quegli attori finanziari che dopo il crollo del sistema economico del 2007/2008 hanno iniziato prima a investire nei «beni rifugio», le commodity (grano, riso, mais, soia), per poi puntare verso «qualcosa di ancora più tangibile delle materie prime alimentari: la terra, il bene primario per eccellenza, l'investimento redditizio e sicuro».
Il viaggio di Liberti tocca così anche le stanze ovattate dei lussuosi hotel di Ginevra dove si riuniscono «uomini d'affari, operatori dell'industria, gestori di strumenti finanziari interessati a lanciarsi nel settore dell'agricoltura», oltre che i concitati pit, i «pozzi» del grattacielo di Jackson Bouvelard che ospita il Chicago Board of Trade, la borsa merci di Chicago dove, ogni giorno, «si scambiano più di dieci milioni di contratti al giorno» e «si decide il valore di quei prodotti di base che definiscono il prezzo del cibo in tutto il pianeta». Per operatori finanziari e governi autoritari, le terre da cui viene quel cibo sono vuote, inutilizzate, sottosfruttate. Eppure su quelle terre ci sono uomini e donne in carne e ossa: per esempio gli abitanti del villaggio di Muhaga, un centinaio di casette di legno nel distretto di Kirawase, 70 chilometri a sud di Dar er Salaam, espropriati con l'inganno e promesse non mantenute; oppure gli indios guaraní del Mato Grosso do Sul, nell'estremo occidente del Brasile, una zona «letteralmente assediata dalle grandi piantagioni di soia», costretti a vivere in una riserva di 3500 ettari.
Perché quello del land grabbing, scrive Liberti, «è soprattutto un grande inganno nei confronti dei contadini», una «forma moderna di neocolonialismo», una battaglia tra contadini e capitale, il cui esito determinerà «i contorni del pianeta in cui ci troveremo a vivere nel corso del XXI secolo»: da una parte le «economie di scala», l'aumento della produttività, la conquista dei mercati esteri, la piantagione estensiva a monocultura, i grandi gruppi dell'agrobusiness, dall'altra i contadini, che puntano alla sovranità alimentare, alla stabilità ecologica, alla diversità rurale e produttiva, all'equa distribuzione delle terre. Si tratta «di modelli opposti, sia dal punto di vista pratico che ontologico», «di uno scontro tra concezioni diverse del territorio e dello sviluppo».

“il manifesto” 10.7.2011

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