Prima della scrittura mille mestieri diversi
Un dialogo con l’autore che in Come tanti cavalli e in Sono stato a Lisbona e ho pensato a te ha descritto aspirazioni e inquietudini del proletariato urbano nel suo paese. Un paese, nota, protagonista attualmente di una delle maggiori rivoluzioni sociali di tutti i tempi. Prima di diventare scrittore, Luiz Ruffato, nato nel 1961 a Cataguases, nello stato di Minas Gerais, ha fatto i classici mille mestieri: ha venduto pop-corn, è stato cameriere, commesso, operaio in un'industria tessile, tornitore metallurgico, giornalista, libraio e ristoratore.
Oggi è considerato uno dei romanzieri più interessanti della letteratura brasiliana contemporanea e i suoi libri sono stati tradotti in diversi paesi. In Italia di Ruffato sono usciti Come tanti cavalli (Bevivino 2003) e Sono stato a Lisbona e ho pensato a te (La Nuova Frontiera, 2011).
Tra le ragioni che
spiegano perché i romanzi brasiliani più graditi dal mercato
editoriale siano quelli ambientati nelle favelas (ovviamente
con annessa «fauna» marginale) c’è che si prestano facilmente a
immediate e trainanti riduzioni televisivo-cinematografiche. Se al
centro della narrazione c’è un adolescente che sogna il suo
riscatto sociale, esitante tra un incerto e modesto futuro lavorativo
e una più concreta ascesa criminale nelle gerarchie del
narcotraffico, comprarne i diritti potrebbe essere un affare. Autori
e critici continuano a discutere se sia ancora opportuno presentare
così il Brasile di oggi, ma nel frattempo il dominio di questa
«dialettica della marginalità», aumentando in intensità e dosi la
violenza rappresentata, si consolida.
Gli interlocutori più
ricettivi, tra l’altro, continuano a essere quei lettori benestanti
in grado d’investire tempo e reals in cinema e letteratura.
Commossi, ogni volta, ringraziano per aver finalmente scoperto quel
che succede ai margini dei palazzi blindati nei quali vivono
asserragliati. Chi non crede nella loro distratta filantropia e prova
fastidio quando si esibiscono in entusiastici paralleli estetici tra
le Città di Dio di Rio e le borgate romane di Pasolini, li accusa di
«voyeurismo della miseria».
È una salutare anomalia,
quindi, che il protagonista del breve romanzo del brasiliano Luiz
Ruffato, Sono stato a Lisbona e ho pensato a te (traduzione di
Gian Luigi De Rosa, La Nuova Frontiera), sia un modesto impiegato
della Sezione Pagamenti della Companhia Industrial Cataguases, un
lavoratore con tanto di busta paga, moglie e figlio da mantenere e
madre premurosa che finirà per morire di crepacuore. Sarà lui
stesso a raccontare i motivi del suo licenziamento e le ragioni che
lo hanno convinto a cercar fortuna in Portogallo. Lascerà la sua
Cataguases, una piccola cittadina nel Minas Gerais, negli anni ’60
uno dei poli industriali che contribuì alla modernizzazione del
Brasile. A quel tempo, i coniugi Ruffato (e il cognome ne tradisce le
origini) l’avevano scelta per offrire ai figli una vita migliore e
non è casuale che dagli spazi in decadenza di Cataguases s’irradi
quasi tutta la letteratura del loro Luiz. Frammenti, racconti,
romanzi che si soffermano su singole vite e mete collettive di un
itinerario forzato. Tappe di quel continuo movimento migratorio –
di andata e mancato ritorno –, sempre e comunque centripeto,
imposto da urbanizzazioni, modernizzazioni, globalizzazioni.
Comincerei
l'intervista, per quanto possa sembrare insolito, da una nota canzone
di Chico Buarque de Hollanda, Construçao.
Considerando nel complesso i suoi testi, potremmo definire il suo
progetto di scrittura come un tentativo di rendere meno anonimo il
quotidiano di quel lavoratore urbano che, altrimenti, verrebbe
ricordato soltanto perché morendo ha intralciato il traffico e lo
shopping di un sabato metropolitano?
Credo che almeno
nell’intenzione il mio progetto letterario sia un po’ più
ambizioso. La letteratura brasiliana non ha mai dato spazio alla
rappresentazione del lavoratore urbano. Abbiamo rappresentato molto
bene i diversi strati della società brasiliana, la borghesia e la
piccola-borghesia urbana, l’aristocrazia terriera e i contadini,
persino il sottoproletariato. Ma curiosamente il proletariato urbano
non ha trovato mai espressione nelle pagine dei libri brasiliani. È
stato rappresentato qua e là il sindacalista, come nelle opere di
Jorge Amado, per difendere più un’idea di lavoratore (idea, per
inciso, in generale romantica, manichea) che non propriamente la vita
del lavoratore. La mia ambizione è stata di creare un universo in
cui il lavoratore urbano, con i suoi desideri, le sue frustrazioni,
le sue contraddizioni, comparisse come protagonista. Così, nella
serie Inferno provvisorio, composta da cinque volumi, tento di
comprendere la storia del Brasile degli ultimi cinquant’anni, in
cui siamo passati da una società rurale a una società
post-industriale, senza avere il tempo per assimilare i mutamenti
sostanziali di questo processo.
Una scelta in
controtendenza, visto che gran parte della letteratura contemporanea
brasiliana continua a privilegiare, per dirla con Rubem Fonseca, «i
vagabondi alla periferia del capitalismo». Materiale tematico più
duttile e all’occorrenza antisistema, tipico prodotto delle città
post-industriali e quindi più adatto a una scrittura postmoderna…
A dire il vero, il
marginale, il lumpenproletariat, non mi ha mai interessato
come tema per i miei libri. Questo tipo ha una sovraesposizione nella
letteratura brasiliana (l’ha sempre avuta, fin dal Romanticismo,
con i suoi galanti banditi rurali), costruito in genere a partire da
una prospettiva idealizzata di eroe antisistema. Le origini dei
nostri problemi, evidentemente, cominciano con una constatazione,
quella che siamo una società fondata su una impressionante
ingiustizia sociale, ma sinceramente, credo che se ci lasciamo
ingannare da questa semplice constatazione, non comprenderemo la
complessità del problema. La questione sociale rimane ancora oggi
fonte di ingiustizia e promotrice di violenza, ma almeno altre tre
questioni devono essere prese in considerazione: il traffico di
droga, la corruzione (vale a dire il senso di impunità) e i grandi
movimenti migratori. Per me, infatti, quest’ultimo elemento, sempre
trascurato quando si discute della violenza urbana in Brasile, è di
fondamentale importanza per capire il problema. La nozione di «non-appartenenza» che
prevale tra imigranti interni, spinti dalle loro regioni verso Rio de
Janeiro e San Paolo per essere
utilizzati come manodopera a basso costo per il rapido processo di
industrializzazione, spiega più di tutto il resto. Ed è proprio
questo tema, la perdita dell’identità – qualcuno che ormai non
appartiene più alla terra d’origine,ma non appartiene ancora
neanche al luogo dove vive – che dà forma alla mia letteratura.
Con le microstorie di
Come tanti cavalli (Bevivino editore) lei ha descritto le pene di
San Paolo e dei tanti nessuno (marginali o lavoratori che siano) che
ne compongono il mosaico, racchiudendole in ventiquattr’ore che
sembrano un’eternità. Subito dopo, come ha detto, ha intrapreso un
progetto di «macrostoria» in cinque volumi, la saga di una comunità
di lavoratori immigrati italiani che ha per titolo, appunto, Inferno
provisorio. Perché questo titolo, perché provvisorio?
Inferno
provvisorio perché, appunto, ancora non definitivo. È una visione
ottimistica del cammino che può compiere il Brasile. L’inferno in
cui siamo può essere provvisorio, vale a dire possiamo trasformare
questo paese in un paradiso o in un inferno definitivo. Io credo
nella prima ipotesi ...
Sono
stato a Lisbona e ho pensato a te invece non fa parte della
«pentalogia» e questa volta il migrante è un brasiliano. Dal
titolo ci si aspetterebbe una storia d’amore. In realtà Serginho,
sperimentando come Lisbona non sia un paradiso, sembra pensare con un
certo affetto soprattutto alla sua decadente Cataguases, a se stesso
in qualche modo…
Non
fa parte del ciclo Inferno provvisorio,
così come non ne fanno parte Come tanti cavalli
e De mimjá nem se lembra,
ma tutti convergono nella discussione della stessa problematica:
quella dello «sradicamento». Perché Serginho, lasciando
Cataguases, la sua città natale, dove non riesce a trovare un lavoro
e dove la sua prospettiva di vita è piuttosto limitata, idealizza
il Portogallo (l’Europa) come via di fuga dalle sue frustrazioni.
Quando arriva a Lisbona e affronta la dura realtà dell’emigrante,
rendendosi conto che anche lì non ha prospettive di vita migliore,
idealizza Cataguases. È sempre così per chi non ha radici: il luogo
dove sta non corrisponde mai alle aspettative.
C’è una nota che
anticipa il romanzo («Quel che segue è la testimonianza,
leggermente modificata, di Sérgio de Souza
Sampaio, nato a Cataguases – Minas Gerais, Brasile»). Sembrerebbe
che voglia invitarci a considerarlo oltre che narratore, anche
autore. Testimone di se stesso e non per suo tramite. È così?
In effetti, la nota che
anticipa il romanzo è un procedimento narrativo che cerca di dare
verosimiglianza a quel che si narrerà. In questo caso, per dare
consistenza alla storia di Serginho ho preferito la prima persona, ma
non una prima persona qualsiasi, una prima persona «reale» la cui
spontanea testimonianza sarebbe stata raccolta in un luogo e in una
data specifica. Così, penso, Serginho potrebbe esporre, senza
intermediari, il suo dolore, la sua angoscia, la sua incomprensione
dell’universo.
Se ci fermassimo qui,
chi non ha letto ancora i suoi testi potrebbe pensare a un nuovo
«romanzo proletario» alla Jorge Amado. In realtà, le differenze
saltano agli occhi, a partire dalla sperimentazione grafica o dal
linguaggio dei suoi personaggi. Per non parlare del tempo lineare che
scompare per lasciar spazio alla molteplicità di tempi narrativi, a
una sorta di ipertesto, insomma, più «concretismo» che
neorealismo.
In realtà mi piacerebbe
essere riconosciuto come una persona che fa Letteratura, senza
aggettivi, e il
cui tema è il
proletariato urbano. Quel che distingue fondamentalmente la mia
prospettiva da quella di Jorge Amado, per esempio, oltre al fatto che
non c’è idealizzazione dei personaggi proletari, è la questione
formale. Amado è figlio del Naturalismo, con i suoi romanzi a tesi e
il suo linguaggio impoverito. Io flirto con la tradizione
dell’antiromanzo borghese, il romanzo sperimentale, che ha le sue
radici in Don Chisciotte e Tristram Shandy, passando
per Joyce, Faulkner, il nouveau roman, l’Oulipo. Insomma,
cerco di fare un romanzo onnivoro, non realista, non naturalista.
Quindi tenendo conto
dell’importanza che ha per lei l’intertestualità, anche la
divisione in due parti della storia di Serginho («Come ho smesso di
fumare» e «Come ho ricominciato a fumare») ha qualche parentela
con i problemi di "Coscienza (di Zeno)" di Italo Svevo?
Senza alcun dubbio.
Colloco Svevo nella stessa «nicchia» avanguardista che ho elencato
prima. Basta ricordare che Svevo aveva un rapporto molto stretto con
Joyce...
In qualche modo, però,
in un senso politico, si corre il rischio di dover rimpiangere
l’epica di un certo regionalismo neorealista, perché lì c’era
speranza nel futuro o, perlomeno, valori condivisi. Serginho, al
contrario sta solo. Cambiano i coroneis ma nelle loro mani rimane a
disposizione sempre un «esercito di riserva». A suggello della sua
precaria esperienza a Lisbona anche lui come gli «affittati» delle
piantagioni di Cacao potrebbe dire «nasciamo già vinti». O non è
così?
Questa visione
pessimista, che indicava una sola via d’uscita possibile, la
rivoluzione, non fa parte del mio repertorio. In realtà, la via
d’uscita è possibile ed è quel che sta accadendo oggi in Brasile.
Il paese doveva avere un operaio alla presidenza della Repubblica, un
uomo di poche letture, ma con un vissuto interiore straordinario, per
perseguire un nuovo posto nel mondo. Oggi il Brasile, piaccia o no ai
critici, è protagonista di una delle più grandi rivoluzioni sociali
di tutti i tempi. Mai così tante persone, più di trenta milioni,
hanno cambiato lo statuto sociale in una sola volta e in così poco
tempo. E senza che fosse versata una sola goccia di sangue. Noi, al
contrario, non nasciamo sconfitti, noi nasciamo per la vittoria …
il manifesto 8 novembre
2011
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