L'avventurosa vita di
Luigi Polano,
primo segretario della Fgci
Come s'intuisce dallo
slogan «Dio stramaledica gli inglesi», la propaganda bellica che il
commentatore Mario Appelius diffondeva ogni sera dalla radio del
regime fascista era più che ridondante. Per cui al netto del dramma,
anzi della tragedia, ciò che accadde il 6 ottobre 1941 dovette
risuonare come un imprevisto eccezionale, ma anche come uno spasso.
Perché nell'attimo in cui Appelius prendeva fiato, si udì
distintamente: «Italiani, qui parla la voce della verità!». E a
ogni pausa dell'arringa: «Non è vero! — diceva la voce — Tu
inganni il popolo italiano!», come pure: «Basta con la guerra
fascista!», e così via. Lo scherzo, che poi non era tale, ma un
esperimento tecnologico di assai efficace contro-informazione, andò
avanti da allora fino alla liberazione di Roma (giugno 1944).
Nel frattempo Mussolini
s'imbestialiva perché le sue polizie non riuscivano a capire come
diavolo fosse possibile, chi stava orchestrando lo scherzetto e
soprattutto da dove provenivano quelle onde così lontane e così
vicine. Per giunta, tra un'interferenza e l'altra, il disturbatore
antifascista era anche lesto a scendere sul piano personale:
«bugiardo!», accusava, come pure «asino!», «venduto!»,
«criminale!»; e insomma, se si considera che quel programma era la
fonte principale per capire come stesse andando la guerra, e che
l'ascolto di «Radio Londra» comportava addirittura l'arresto, tutto
lascia pensare che a forza di sorprese e interruzioni per una
moltitudine di italiani quel rito di consenso coatto fosse anche
divenuto, o comunque fosse vissuto come un grande spettacolo.
Così, per depotenziarlo,
si mise all'opera una finta voce, addomesticata, cui si poteva
ribattere con facilità. Ma l'artificio non funzionò, mentre la vera
voce seguitava ad annunciare e preannunciare catastrofi chiamando la
popolazione alla rivolta. A un certo punto Appelius prese a
rivolgersi a quella misteriosa entità con una maldestra espressione,
«lo spettro», che sulla base di quanto di terribile andava
accadendo proprio allora sui vari fronti, senza nemmeno rendersene
conto in qualche modo restituiva la parola alle migliaia di soldati
italiani mandati a morire ammazzati nel fango dei Balcani, nel
deserto di Libia o nel gelo della steppa sovietica.
Ecco. A oltre 70 anni di
distanza un libro, La voce della verità (Nutrimenti editore),
ricostruisce in forma romanzata, ma documentatissima, la storia
dell'uomo che su segretissimo mandato di Palmiro Togliatti, allora
uno dei tre segretari del Komintern, svolse questa missione
itinerante, tra la Serbia e il Montenegro in fiamme, caricandosi una
stazione radio e con l'ausilio di due tecnici sovietici, tra mille
avventure, compresa quella di procacciarsi le notizie per meglio
controbattere le retoriche panzane e le fasulle vittorie dei
bollettini bellici del fascismo.
L'autore di questo libro
per alcuni versi appassionante, per altri sorprendente, è un
giornalista sardo, Vindice Lecis; come sardo, pure di Sassari, era il
formidabile personaggio, Luigi Polano, indicato nel sottotitolo come
«il comunista che beffò Mussolini ». Già alla guida dei giovani
socialisti, conobbe Lenin e partecipò in primo piano alla scissione
di Livorno, fu al vertice del Pcd'I insieme con Bordiga e Gramsci,
cinque volte arrestato in Italia, poi spedito in Russia dove in veste
di sindacalista dei marittimi aveva occasione di entrare e restare in
contatto con gli italiani.
In realtà, più che di
un politico come lo si può immaginare al giorno d'oggi, quella di
Polano è la vita di un autentico professionista della cospirazione e
un girovago della rivoluzione, dal Baltico al Mar Nero, dalla Parigi
infida dell'emigrazione alla Spagna della Guerra civile, fino ai
corridoi puzzolenti di cipolla dell'hotel Lux. Un comunista
plurischedato che Lecis racconta anche attraverso le carte di polizia
e gli stizziti commenti del suo antagonista quasi personale,
l'ispettore (anche lui sardo?) Porfirio Piredda.
Taciturno poliglotta,
mago dei passaporti falsi e dotato di mille identità, a tal punto
Polano si consegnò all'ideale da alimentare il mito della propria
astuzia e inafferrabilità ben oltre i confini del partito italiano e
degli altri che come lui avevano fatto base nell'Urss, Robotti,
Berti, Grieco, Roasio.
Uomo d'aspetto
apparentemente anonimo, di sobria eleganza, con l'hobby di suonare il
violino, eppure capace come pochi di dare la caccia alle spie
fasciste, ma anche così spietato nella lotta alle «deviazioni» da
guadagnarsi la nomea, invero più che plausibile, di agente della
terribile Ghepeù.
Come accadeva in quel
clima plumbeo e oppressivo fino alla paranoia, ebbe comunque anche
lui i suoi problemi, per così dire, di linea e un certo numero di
sospetti che lo inseguivano riacutizzandosi di tanto in tanto. Per
certi versi, lascia capire l'indagine di Lecis, la missione che
Togliatti in persona affidò a Polano in un luogo destinato alla
massima segretezza contribuì a tenerlo lontano dalle purghe
moscovite.
Ritornato a Sassari dopo
la Liberazione carico di onorificenze sovietiche, insieme con moglie,
pure decorata, e figlio di nome Prometeo, Polano si adattò benissimo
al tran tran della democrazia nel dopoguerra. Fu brevemente a capo
del Pci in Sardegna, consigliere comunale, deputato, quindi senatore,
pochi seppero delle sue imprese pazzesche in giro per il mondo e del
sabotaggio radiofonico che lo aveva trasformato nientemeno che in un
fantasma.
Quando nel 1982, di
passaggio nella sua Sassari, Enrico Berlinguer e alcuni compagni
andarono a trovarlo ormai 85enne, gli fu chiesto se la presenza del
segretario poteva scioglierlo dal voto del silenzio sui dettagli e
sul luogo da cui trasmetteva la voce. Ma Polano, con la calma di chi
aveva subito ben altri interrogatori, rispose: «Ho promesso di non
rivelarlo mai a nessuno». E restò in silenzio — virtù, ai suoi
tempi, ben lungi dall'essere insidiata dal cicaleccio dei talk-show.
La Repubblica - 16 aprile
2014
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