1.9.15

1960, il caso Cassola. “Mondo Operaio”, Italo Calvino e la ragazza di Bube.

“Mondo Operaio”, la storica rivista socialista fondata da Pietro Nenni, nel numero di luglio-agosto del 1960 ruotava intorno a due temi politici: la caduta di Tambroni e del suo tentativo fascistoide grazie a una potente spinta di massa operaia e giovanile (i ragazzi delle “magliette a strisce”) e la rottura sempre più evidente nel blocco comunista tra l'URSS di Khruscev e la Cina di Mao. Monografica fu anche la sezione culturale, dedicata alla Ragazza di Bube, il romanzo di Carlo Cassola che era anche un militante socialista ed era stato autore, insieme a Luciano Bianciardi, di una inchiesta sociale sui minatori dell'Amiata.
Il romanzo dello scrittore toscano è anche una riflessione sugli esiti della Resistenza. In esso il partigiano Bube, per reazione a una liberazione che vede il ritorno in sella dei vecchi padroni, uccide e finisce in carcere. La sua ragazza – bellissima e forte – accetta fino in fodo l'immeritato destino di “vedova bianca”. Nel 1960 Cassola, che vinse il Premio Strega ed ebbe un certo successo di pubblico (accresciuto tre anni dopo, quando il romanzo divenne un film con Claudia Cardinale), fu molto criticato dai letterati di fede comunista per l'immagine della Resistenza che trasmetteva.
“Mondo operaio” sul romanzo aprì un'inchiesta tra gli intellettuali, rivolgendo ad essi due precise domande. In quel numero di luglio-agosto, che contiene la maggior parte delle risposte, intervennero Pio Baldelli, Roberto Battaglia, Piero Caleffi, Italo Calvino, Cesare Cases, Piero Chiodi, Elena Croce, Roberto Guiducci, Carlo Muscetta e Geno Pampaloni, tutte figure importanti del dibattito culturale e letterario di quegli anni.
Qui sotto riprendo, da quel numero Mondo Operaio, la presentazione dell'inchiesta e la risposta di Italo Calvino (il titolo è mio) che, uscito dal PCI nell'indimenticabile 56 senza sbattere la porta, ha vissuto la Resistenza e tutte le contraddizioni del partito in quell'appassionato dopoguerra. (S.L.L.)  

Due domande su “La ragazza di Bube” (Mondo Operaio)
A rischio di compiere un’apparente prevaricazione dell’interesse politico-ideologico sull’autonomia della creazione artistica abbiamo voluto sottoporre l’ultimo romanzo del compagno Carlo Cassola, La ragazza di Bube — il cui valore artistico ha avuto di recente un meritato riconoscimento con l’assegnazione del ” Premio Strega ” — a un giudizio dichiaratamente ’’ contenutistico ”, ponendo ad alcuni scrittori, critici letterari e uomini della Resistenza le due domande seguenti:
a) Condividi o respingi — e perché — i giudizi storici e politici espressi o suggeriti dal romanzo di Carlo Cassola, La ragazza di Bube, a proposito delle speranze e delle delusioni seguite alla Resistenza e delle responsabilità politiche che direttamente o indirettamente vengono chiamate in causa?
b) Ritieni che i personaggi e le vicende del romanzo di Cassola siano effettivamente rappresentativi della realtà sociale e politica alla quale l’autore evidentemente si richiama?
Ma quella temuta prevaricazione è, come abbiamo detto, solo apparente. Infatti tutte o quasi tutte le risposte qui pubblicate mostrano come il giudizio sul contenuto politico e ideologico sia elemento essenziale per la valutazione complessiva di un'opera scaturita da un fortissimo impegno morale e politico. Ed è precisamente su questo aspetto della narrativa contemporanea che “Mondo Operaio” crede di poter dare un proprio originale contributo critico.
La resistenza di Mara (Italo Calvino)
La ragazza di Bube è un libro molto bello; c’è dentro una figura di ragazza, tutta espressa attraverso notazioni minime e silenzi, che ha grande forza; c’è un tema, quello della fedeltà, tenuto su un filo di coltello tra il sentimento popolare e l’assurdo, da togliere il fiato. Il valore del libro è in questa tensione poetica ed esistenziale, e quindi morale, e quindi storica; non direi vada cercato su un piano politico immediato, di giudizi direttamente espressi o di comportamenti rappresentati. Cassola, discepolo di Flaubert, mette in bocca ai suoi personaggi frasi del parlare comune, pensieri convenzionali, idee ricevute; per stare alle regole del gioco, si suppone che di queste idee l’autore non partecipi, che le registri con distacco; e salvi, o condanni, di là delle apparenze della cronaca, una verità non detta che può celarsi anche nei cuori più semplici. Quest’operazione di recupero d’una verità e libertà più profonde, Cassola la conduce pienamente nei riguardi di Mara, le cui motivazioni parrebbero tutte determinate dal costume e dall’ambiente e che dispone d’un limitatissimo numero d’idee e parole per definire le sue scelte, ma che pure attraverso queste attua una sua oscura eroica libertà. Qui certamente l’autore consente col personaggio: Cassola è convinto della positività di Mara e riesce a convincerne anche noi. Mara si sacrifica a qualcuno che certo non la vale, perché solo così può esprimere l’importanza della vita, dare una lezione al mondo che la circonda, non essere abbassata al loro livello.
Ma questa salvezza dei semplici, a Bube è negata. Cassola lo inchioda alle cose che dice e che fa, non vede null’altro dietro. Passivo e determinato dalle circostanze, Bube è quando fa il partigiano vendicatore e uccide con indifferenza e s’esprime col frasario corrente dell’estremismo; passivo e determinato dalle circostanze resta quando lo troviamo prigioniero umiliato, sempre allo stato larvale come intelligenza storica e umana di ciò che ha fatto, e si esprime con altre idee ricevute: dando la colpa a quelli che gli hanno «armato la mano».
L’ignoranza di Bube di aver commesso un delitto uccidendo senza necessità, e l’assenza di giudizio della ancora «dormente» Mara sono espresse da Cassola in pagine bellissime; non importa quanto vi sia in esse di verosimiglianza o «tipicità» ; c’è una verità poetica che ha anche un significato storico; e del resto tutta la nostra generazione ha vissuto quella fase della guerra in cui una vita umana — le nostre, le loro — costava così poco. Questo della fuga appena preoccupata di Bube con la ragazza nel capanno, fino all’arresto, poteva essere un racconto perfetto, tutto definito in una situazione d’incerta coscienza e allarme. Ma volendo continuare, «far romanzo», cioè vedere gli sviluppi, le conseguenze d’un dato avvio su una vita o più vite, bisognava approfondire (non necessariamente per via d’introspezione psicologica, di motivazione riflessa: anche per semplice registrazione dei nuovi atti, dei nuovi umori, delle nuove scelte giornaliere).
Questo sviluppo, per Mara ce l’ha dato; ma ci ha sottratto Bube nell’ombra della sua prigione (prigione anche interiore) e quanto ne fa vedere — a noi e a Mara, da una visita all’altra — non basta a riscattarlo sul piano d’una catarsi poetico-morale, cioè a dare un significato universale alla sua storia.
Primo motore degli accadimenti che il romanzo narra è un atteggiamento umano ben noto: l’estremismo rivoluzionario, cioè una forte spinta morale, d’antitesi al mondo circostante, che non trova per esprimersi altro che mezzi e parole rozzi, inadatti, emotivi, e talora crudeli. Cassola però non ha fatto il romanzo dell’estremismo : ha fatto il romanzo di Mara, cioè di come può attuarsi in un mondo estremista (con quanta naturale «semplicità» ma pure con quanto eroico sforzo) una condotta morale. Ha illuminato quindi solo un personaggio, si è riconosciuto solo in esso, ha affidato solo ad esso la sua proposta poetica e umana. Illuminare i personaggi estremisti (Bube e il padre di Mara, i due che rovinano la vita di lei e a cui pure lei volontariamente si sacrifica), svolgere con loro la stessa operazione di pietà eroica compiuta scavando oltre i limitati orizzonti di ragazza qualsiasi di Mara, avrebbe voluto dire rintracciare sotto le gradassate sanguinarie di Bube, sotto il povero frasario della tradizione rivoluzionaria orale paesana del padre di Mara, una ricchezza e complessità morale, una generosità magari donchisciottesca, un nodo di problemi di coscienza irrisolti e drammatici anche se impossibili a esprimersi. E di lì allora sarebbe potuto ripartire a vedere i loro vizi, e a condannarli più duramente (cioè non a farne delle semplici «vittime»): il loro muoversi nell’estremismo in modo fiacco, sbadato, pressapochista, passivo, non sorretto da quel rigore, da quella nettezza, da quel fuoco interiore che solo poteva giustificarli.
Ma qui l’accento di Cassola è tutto sul rifiuto di salvezza — di possibilità di salvezza — per la parte rivoluzionaria. Anche l’operaio d’oggi — dell’incerto oggi — col suo modesto e possibilistico desiderio d’elevarsi (il pretendente sfortunato di Mara) è inchiodato da Cassola alla goffaggine della sua mezza cultura, senza che gli sia data occasione di riscatto.
Tra la Resistenza e la ripresa della vita politica legale, e via via nel quindicennio successivo, il comunismo italiano ha vissuto il contrasto tra un atteggiamento estremista di fondo — che aveva dalla sua la forza morale d’ogni negazione recisa, d’ogni antitesi rigorosa, ma era rozzo, anacronistico, votato alla sconfitta, oltreché sommovitore d’impulsi irrazionali — e l’intento di creare un partito modernamente strumentato, da classe operaia egemone, capace d’agire sul piano d’una democrazia avanzata — che rispecchiava l’esigenza della parte più moderna delle classi popolari italiane e seppe esprimere una leva di quadri eccellenti, sia operai che intellettuali, ma che, attuato spesso attraverso circolari, freddamente, dubbiosamente, era atto a degenerare in burocratismo, piccola diplomazia, cinismo, lassismo e cosi via. Tra questi due poli, con le loro virtù e i loro vizi, il comunismo italiano ha vissuto una vicenda i cui passi obbligati erano dettati dal gioco della politica internazionale, che spostava dall’uno all’altro il peso della bilancia.
Questo contrasto, nella Ragazza di Bube non appare: del secondo termine qui non si sa nulla. È ben possibile: le comunicazioni in Valdelsa ( o dove diavolo siamo) funzionavano male, i comunisti erano completamente all’oscuro della linea del partito; chiunque ha fatto la Resistenza in una provincia periferica sa che questi sfasamenti accadevano. Sul piano della verosimiglianza, dunque, niente da dire: ma sul piano dell’aderenza del romanzo ai problemi di quel momento storico, non ci siamo.
Ma se mettiamo la discussione su questo piano, anche la storia di Mara è fuori squadra: in quegli anni, nel costume amoroso della gioventù, il problema era l’irrompere d’una libertà sessuale che travolgeva i vecchi concetti di castità, fidanzamento, fedeltà eccetera; il vero romanzo da scrivere sarebbe allora quello della ragazza che pur rifiutando i vecchi tabù trova in un costume di libertà una nuova linea morale. Altro che Mara! La poverina, vittima anch’essa delle cattive comunicazioni della Valdelsa, era lontana dall'immaginare le conquiste della sua generazione (la generazione della lambretta e del boogie-boogie) nel campo dei rapporti tra i sessi. Il romanzo di Cassola si ridurrebbe cosi a una storia di persone mal informate.
Ho portato le cose al paradosso per dimostrare che questa pretesa di far passare le opere letterarie per libri di storia sia sballata. Cassola è prima di tutto un lirico, e si serve d’un catalogo d’immagini ben preciso, tratte da un certo mondo paesano e non oltre, durante certi anni e non oltre; e attraverso ad esso cerca d’esprimere delle cariche lirico-morali, che possono avere — queste sì — una loro incidenza storica.
Naturalmente la scelta delle immagini ha il suo peso, siamo sempre in una storia paesana, non c’è verso di uscirne, mentre oggi in Italia la vita paesana non mi pare più il microcosmo da cui si possano trarre illuminazioni macrocosmiche. Ma è pur vero che in Italia la grande poesia si è sempre fatta a Recanati. Il guaio è che i miei amici le loro Recanati le amano, (Volterra, le borgate romane, Ferrara, e non parliamo dei meridionali) mentre Recanati — o Rouen, o la campagna di Cicikov — non si devono amare. E la bellezza di Mara, forse prima apparizione umana positiva di grande statura nella nuova letteratura italiana (la parola personaggio mi ha annoiato e non la uso) ha un fondo contraddittorio. Mara attua la sua scelta senza uscire dai canoni della morale tradizionale, della rassegnazione cristiana, dell’accettazione della rinuncia e del sacrificio; e questo non può non dare all’opera di Cassola una venatura conservatrice. Ma il fatto che ella ne faccia un atto di vita morale, per sé e per gli altri, senza illusioni sul futuro che l’attende, contro lo stesso senso comune, di fronte a un mondo insieme di ferocia e di lassismo e di disgregazione interiore, le dà una forza del tutto nuova.

Questa è la grande vittoria di Cassola, ed è vittoria anche su se stesso, sulla sua ideologia del «semplice» e dell’«umano», sulle sue nostalgie paesane. Mara non è l’eroina d’una morale popolare fatta di natura e tradizione come forse l’autore crede, ma una sfida all’assurdo con le armi di chi sa vivere lo assurdo razionalmente; si inserisce nella letteratura dei Sartre e dei Camus che Cassola crede d’odiare. Egli sembra aver voluto accusare la politica e le ideologie contemporanee d’aver perso la naturale salute morale che era custodita nella tradizione religiosa e popolare e campagnola: di fatto il suo romanzo dice che in tempi in cui la storia non ha altro metro morale che se stessa e i suoi risultati pratici, la morale è momento individuale, di scelta interiore, in quella tesa pace dell’animo che si può avere soltanto in mezzo al fuoco della battaglia. «Letteratura della Resistenza» vuol dire proprio questo.

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