“Mondo Operaio”, la
storica rivista socialista fondata da Pietro Nenni, nel numero di
luglio-agosto del 1960 ruotava intorno a due temi politici: la caduta
di Tambroni e del suo tentativo fascistoide grazie a una potente
spinta di massa operaia e giovanile (i ragazzi delle “magliette a
strisce”) e la rottura sempre più evidente nel blocco comunista
tra l'URSS di Khruscev e la Cina di Mao. Monografica fu anche la
sezione culturale, dedicata alla Ragazza di Bube,
il romanzo di Carlo Cassola che era anche un militante socialista ed
era stato autore, insieme a Luciano Bianciardi, di una inchiesta
sociale sui minatori dell'Amiata.
Il
romanzo dello scrittore toscano è anche una riflessione sugli esiti
della Resistenza. In esso il partigiano Bube, per reazione a una
liberazione che vede il ritorno in sella dei vecchi padroni, uccide e
finisce in carcere. La sua ragazza – bellissima e forte –
accetta fino in fodo l'immeritato destino di “vedova bianca”. Nel
1960 Cassola, che vinse il Premio Strega ed ebbe un certo successo di
pubblico (accresciuto tre anni dopo, quando il romanzo divenne un
film con Claudia Cardinale), fu molto criticato dai letterati di fede
comunista per l'immagine della Resistenza che trasmetteva.
“Mondo
operaio” sul romanzo aprì un'inchiesta tra gli intellettuali,
rivolgendo ad essi due precise domande. In quel numero di
luglio-agosto, che contiene la maggior parte delle risposte,
intervennero Pio Baldelli, Roberto Battaglia, Piero Caleffi, Italo
Calvino, Cesare Cases, Piero Chiodi, Elena Croce, Roberto Guiducci,
Carlo Muscetta e Geno Pampaloni, tutte figure importanti del
dibattito culturale e letterario di quegli anni.
Qui sotto riprendo, da quel numero Mondo Operaio, la presentazione dell'inchiesta e la risposta di Italo Calvino (il titolo è mio) che, uscito dal PCI nell'indimenticabile 56 senza sbattere la porta, ha vissuto la Resistenza e tutte le contraddizioni del partito in quell'appassionato dopoguerra. (S.L.L.)
Qui sotto riprendo, da quel numero Mondo Operaio, la presentazione dell'inchiesta e la risposta di Italo Calvino (il titolo è mio) che, uscito dal PCI nell'indimenticabile 56 senza sbattere la porta, ha vissuto la Resistenza e tutte le contraddizioni del partito in quell'appassionato dopoguerra. (S.L.L.)
Due domande su “La
ragazza di Bube” (Mondo Operaio)
A rischio di compiere
un’apparente prevaricazione dell’interesse politico-ideologico
sull’autonomia della creazione artistica abbiamo voluto sottoporre
l’ultimo romanzo del compagno Carlo Cassola, La ragazza di Bube
— il cui valore artistico ha avuto di recente un meritato
riconoscimento con l’assegnazione del ” Premio Strega ” — a
un giudizio dichiaratamente ’’ contenutistico ”, ponendo ad
alcuni scrittori, critici letterari e uomini della Resistenza le due
domande seguenti:
a) Condividi o respingi —
e perché — i giudizi storici e politici espressi o suggeriti dal
romanzo di Carlo Cassola, La ragazza di Bube, a proposito
delle speranze e delle delusioni seguite alla Resistenza e delle
responsabilità politiche che direttamente o indirettamente vengono
chiamate in causa?
b) Ritieni che i
personaggi e le vicende del romanzo di Cassola siano effettivamente
rappresentativi della realtà sociale e politica alla quale l’autore
evidentemente si richiama?
Ma quella temuta
prevaricazione è, come abbiamo detto, solo apparente. Infatti tutte
o quasi tutte le risposte qui pubblicate mostrano come il giudizio
sul contenuto politico e ideologico sia elemento essenziale per la
valutazione complessiva di un'opera scaturita da un fortissimo
impegno morale e politico. Ed è precisamente su questo aspetto della
narrativa contemporanea che “Mondo Operaio” crede di poter dare
un proprio originale contributo critico.
La resistenza di Mara
(Italo Calvino)
La ragazza di Bube
è un libro molto bello; c’è dentro una figura di ragazza, tutta
espressa attraverso notazioni minime e silenzi, che ha grande forza;
c’è un tema, quello della fedeltà, tenuto su un filo di coltello
tra il sentimento popolare e l’assurdo, da togliere il fiato. Il
valore del libro è in questa tensione poetica ed esistenziale, e
quindi morale, e quindi storica; non direi vada cercato su un piano
politico immediato, di giudizi direttamente espressi o di
comportamenti rappresentati. Cassola, discepolo di Flaubert, mette in
bocca ai suoi personaggi frasi del parlare comune, pensieri
convenzionali, idee ricevute; per stare alle regole del gioco, si
suppone che di queste idee l’autore non partecipi, che le registri
con distacco; e salvi, o condanni, di là delle apparenze della
cronaca, una verità non detta che può celarsi anche nei cuori più
semplici. Quest’operazione di recupero d’una verità e libertà
più profonde, Cassola la conduce pienamente nei riguardi di Mara, le
cui motivazioni parrebbero tutte determinate dal costume e
dall’ambiente e che dispone d’un limitatissimo numero d’idee e
parole per definire le sue scelte, ma che pure attraverso queste
attua una sua oscura eroica libertà. Qui certamente l’autore
consente col personaggio: Cassola è convinto della positività di
Mara e riesce a convincerne anche noi. Mara si sacrifica a qualcuno
che certo non la vale, perché solo così può esprimere l’importanza
della vita, dare una lezione al mondo che la circonda, non essere
abbassata al loro livello.
Ma questa salvezza dei
semplici, a Bube è negata. Cassola lo inchioda alle cose che dice e
che fa, non vede null’altro dietro. Passivo e determinato dalle
circostanze, Bube è quando fa il partigiano vendicatore e uccide con
indifferenza e s’esprime col frasario corrente dell’estremismo;
passivo e determinato dalle circostanze resta quando lo troviamo
prigioniero umiliato, sempre allo stato larvale come intelligenza
storica e umana di ciò che ha fatto, e si esprime con altre idee
ricevute: dando la colpa a quelli che gli hanno «armato la mano».
L’ignoranza di Bube di
aver commesso un delitto uccidendo senza necessità, e l’assenza di
giudizio della ancora «dormente» Mara sono espresse da Cassola in
pagine bellissime; non importa quanto vi sia in esse di
verosimiglianza o «tipicità» ; c’è una verità poetica che ha
anche un significato storico; e del resto tutta la nostra generazione
ha vissuto quella fase della guerra in cui una vita umana — le
nostre, le loro — costava così poco. Questo della fuga appena
preoccupata di Bube con la ragazza nel capanno, fino all’arresto,
poteva essere un racconto perfetto, tutto definito in una situazione
d’incerta coscienza e allarme. Ma volendo continuare, «far
romanzo», cioè vedere gli sviluppi, le conseguenze d’un dato
avvio su una vita o più vite, bisognava approfondire (non
necessariamente per via d’introspezione psicologica, di motivazione
riflessa: anche per semplice registrazione dei nuovi atti, dei nuovi
umori, delle nuove scelte giornaliere).
Questo sviluppo, per Mara
ce l’ha dato; ma ci ha sottratto Bube nell’ombra della sua
prigione (prigione anche interiore) e quanto ne fa vedere — a noi e
a Mara, da una visita all’altra — non basta a riscattarlo sul
piano d’una catarsi poetico-morale, cioè a dare un significato
universale alla sua storia.
Primo motore degli
accadimenti che il romanzo narra è un atteggiamento umano ben noto:
l’estremismo rivoluzionario, cioè una forte spinta morale,
d’antitesi al mondo circostante, che non trova per esprimersi altro
che mezzi e parole rozzi, inadatti, emotivi, e talora crudeli.
Cassola però non ha fatto il romanzo dell’estremismo : ha fatto il
romanzo di Mara, cioè di come può attuarsi in un mondo estremista
(con quanta naturale «semplicità» ma pure con quanto eroico
sforzo) una condotta morale. Ha illuminato quindi solo un
personaggio, si è riconosciuto solo in esso, ha affidato solo ad
esso la sua proposta poetica e umana. Illuminare i personaggi
estremisti (Bube e il padre di Mara, i due che rovinano la vita di
lei e a cui pure lei volontariamente si sacrifica), svolgere con loro
la stessa operazione di pietà eroica compiuta scavando oltre i
limitati orizzonti di ragazza qualsiasi di Mara, avrebbe voluto dire
rintracciare sotto le gradassate sanguinarie di Bube, sotto il povero
frasario della tradizione rivoluzionaria orale paesana del padre di
Mara, una ricchezza e complessità morale, una generosità magari
donchisciottesca, un nodo di problemi di coscienza irrisolti e
drammatici anche se impossibili a esprimersi. E di lì allora sarebbe
potuto ripartire a vedere i loro vizi, e a condannarli più duramente
(cioè non a farne delle semplici «vittime»): il loro muoversi
nell’estremismo in modo fiacco, sbadato, pressapochista, passivo,
non sorretto da quel rigore, da quella nettezza, da quel fuoco
interiore che solo poteva giustificarli.
Ma qui l’accento di
Cassola è tutto sul rifiuto di salvezza — di possibilità di
salvezza — per la parte rivoluzionaria. Anche l’operaio d’oggi
— dell’incerto oggi — col suo modesto e possibilistico
desiderio d’elevarsi (il pretendente sfortunato di Mara) è
inchiodato da Cassola alla goffaggine della sua mezza cultura, senza
che gli sia data occasione di riscatto.
Tra la Resistenza e la
ripresa della vita politica legale, e via via nel quindicennio
successivo, il comunismo italiano ha vissuto il contrasto tra un
atteggiamento estremista di fondo — che aveva dalla sua la forza
morale d’ogni negazione recisa, d’ogni antitesi rigorosa, ma era
rozzo, anacronistico, votato alla sconfitta, oltreché sommovitore
d’impulsi irrazionali — e l’intento di creare un partito
modernamente strumentato, da classe operaia egemone, capace d’agire
sul piano d’una democrazia avanzata — che rispecchiava l’esigenza
della parte più moderna delle classi popolari italiane e seppe
esprimere una leva di quadri eccellenti, sia operai che
intellettuali, ma che, attuato spesso attraverso circolari,
freddamente, dubbiosamente, era atto a degenerare in burocratismo,
piccola diplomazia, cinismo, lassismo e cosi via. Tra questi due
poli, con le loro virtù e i loro vizi, il comunismo italiano ha
vissuto una vicenda i cui passi obbligati erano dettati dal gioco
della politica internazionale, che spostava dall’uno all’altro il
peso della bilancia.
Questo contrasto, nella
Ragazza di Bube non appare: del secondo termine qui non si sa
nulla. È ben possibile: le comunicazioni in Valdelsa ( o dove
diavolo siamo) funzionavano male, i comunisti erano completamente
all’oscuro della linea del partito; chiunque ha fatto la Resistenza
in una provincia periferica sa che questi sfasamenti accadevano. Sul
piano della verosimiglianza, dunque, niente da dire: ma sul piano
dell’aderenza del romanzo ai problemi di quel momento storico, non
ci siamo.
Ma se mettiamo la
discussione su questo piano, anche la storia di Mara è fuori
squadra: in quegli anni, nel costume amoroso della gioventù, il
problema era l’irrompere d’una libertà sessuale che travolgeva i
vecchi concetti di castità, fidanzamento, fedeltà eccetera; il vero
romanzo da scrivere sarebbe allora quello della ragazza che pur
rifiutando i vecchi tabù trova in un costume di libertà una nuova
linea morale. Altro che Mara! La poverina, vittima anch’essa delle
cattive comunicazioni della Valdelsa, era lontana dall'immaginare le
conquiste della sua generazione (la generazione della lambretta e del
boogie-boogie) nel campo dei rapporti tra i sessi. Il romanzo di
Cassola si ridurrebbe cosi a una storia di persone mal informate.
Ho portato le cose al
paradosso per dimostrare che questa pretesa di far passare le opere
letterarie per libri di storia sia sballata. Cassola è prima di
tutto un lirico, e si serve d’un catalogo d’immagini ben preciso,
tratte da un certo mondo paesano e non oltre, durante certi anni e
non oltre; e attraverso ad esso cerca d’esprimere delle cariche
lirico-morali, che possono avere — queste sì — una loro
incidenza storica.
Naturalmente la scelta
delle immagini ha il suo peso, siamo sempre in una storia paesana,
non c’è verso di uscirne, mentre oggi in Italia la vita paesana
non mi pare più il microcosmo da cui si possano trarre illuminazioni
macrocosmiche. Ma è pur vero che in Italia la grande poesia si è
sempre fatta a Recanati. Il guaio è che i miei amici le loro
Recanati le amano, (Volterra, le borgate romane, Ferrara, e non
parliamo dei meridionali) mentre Recanati — o Rouen, o la campagna
di Cicikov — non si devono amare. E la bellezza di Mara, forse
prima apparizione umana positiva di grande statura nella nuova
letteratura italiana (la parola personaggio mi ha annoiato e non la
uso) ha un fondo contraddittorio. Mara attua la sua scelta senza
uscire dai canoni della morale tradizionale, della rassegnazione
cristiana, dell’accettazione della rinuncia e del sacrificio; e
questo non può non dare all’opera di Cassola una venatura
conservatrice. Ma il fatto che ella ne faccia un atto di vita morale,
per sé e per gli altri, senza illusioni sul futuro che l’attende,
contro lo stesso senso comune, di fronte a un mondo insieme di
ferocia e di lassismo e di disgregazione interiore, le dà una forza
del tutto nuova.
Questa è la grande
vittoria di Cassola, ed è vittoria anche su se stesso, sulla sua
ideologia del «semplice» e dell’«umano», sulle sue nostalgie
paesane. Mara non è l’eroina d’una morale popolare fatta di
natura e tradizione come forse l’autore crede, ma una sfida
all’assurdo con le armi di chi sa vivere lo assurdo razionalmente;
si inserisce nella letteratura dei Sartre e dei Camus che Cassola
crede d’odiare. Egli sembra aver voluto accusare la politica e le
ideologie contemporanee d’aver perso la naturale salute morale che
era custodita nella tradizione religiosa e popolare e campagnola: di
fatto il suo romanzo dice che in tempi in cui la storia non ha altro
metro morale che se stessa e i suoi risultati pratici, la morale è
momento individuale, di scelta interiore, in quella tesa pace
dell’animo che si può avere soltanto in mezzo al fuoco della
battaglia. «Letteratura della Resistenza» vuol dire proprio questo.
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