Sto leggendo
(colpevolmente solo adesso) le Cronachette di Leonardo
Sciascia, e mi hanno subito insinuato un interrogativo: “Non sarà
mica questo il capolavoro di quello che definiscono un grande
scrittore senza capolavori?”.
Ci ragionerò sopra,
anche in pubblico, a fine lettura; per ora voglio attirare
l'attenzione sulla seconda delle storie che Sciascia racconta,
intitolata Don Mariano Crescimanno.
È il nome di un benedettino di nobile famiglia che a Modica, in
collusione con la nobile badessa del convento delle benedettine,
s'era reso colpevole di un'eresia, il cosiddetto quietismo o
molinismo. Condannato
a “perpetuo carcere” dopo aver perso il lume della ragione, in
carcere aveva patito condizioni di vita paragonabili a
un'ininterrotta tortura ed era morto dopo 28 anni.
Ma
il vero protagonista della “cronachetta” è il marchese di
Villabianca, Francesco Maria Emanuele e Gaetani. Il marchese, uomo
della più ottusa conservazione legittimista e controriformista,
vissuto in prossimità dei centri del potere politico ed
ecclesiastico in Sicilia, dal 1743 (aveva 23 anni) al 1802, l'anno
della sua morte, compilò quasi tutti i giorni i Diari
palermitani, a buona ragione
considerati una fonte straordinaria per la storia siciliana del
Settecento. Ciò spiega come proprio a lui si sia dedicata la parte
più importante della cosiddetta via Roma Nuova, ideale continuazione
di via Roma e parallela al viale della Libertà.
Non
ho letto i Diari, se
non nelle pagine che ho trovato citate da Leonardo Sciascia o in
libri di Rosario La Duca, ma col marchese ebbi in gioventù più di
un'occasione di contatto. Una cugina di mia moglie aveva sposato un
Emanuele, che del marchese si proclamava diretto discendente, e anche
lei, pur nata in una famiglia di tradizioni democratiche e
socialiste, dopo il matrimonio camminava circonfusa da un'aura di
nobiltà.
Poi
un carissimo compagno di studi, Agostino Bacchi da Santa Ninfa, con
cui non ho rapporti da decenni ma che conto di rintracciare, mi
coinvolse nella preparazione della tesi assegnatagli da Virgilio
Titone, uno storico di orientamento liberal-conservatore, docente di
Storia Moderna nella nostra università palermitana. Era una tesi in
buona parte sperimentale: aveva trascritto e annotato una sorta di
autoapologia allora inedita, nella quale il vecchio marchese
raccontava in sintesi le sue glorie. Agostino volle che la leggessi
per discuterne con me e preparare l'introduzione. Non rammento i
particolari, ma resta vivo il ricordo di un grande fastidio per la
grettezza dell'uomo, che tra i meriti maggiori collocava la
monacazione, chissà quanto volontaria, delle figlie: vanesio,
bigotto, attaccato al centesimo come un piccolo borghese.
La
cronachetta di Sciascia conferma quella negativa impressione. Del
Villabianca il maestro di Racalmuto offre alcuni assaggi, documento
di un fanatismo senza crepe che gli fa difendere ogni privilegio e
ogni istituzione vigente, e gli fa provar gioia per le crudeltà e le
esecuzioni capitali che sembrano confermare la forza del regime che
noi chiamiamo antico. La gioia è tanta anche nel caso della
condanna, nel 1743, del Crescimanno e della sua “setta”, ritenuta
portatrice di una “carnale puzzolente eresia”. E il dolore è
tanto nel 1782, quando in Sicilia viene abolito il Santo Uffizio. Nel
mezzo si colloca la morte del benedettino (1771), di cui il marchese
dà notizia con tono mesto, ricordando la sepoltura, a lume spento,
dell'“infelice”, nel palazzo della famiglia, quella dei baroni di
Capodarso.
C'è
qualcosa di più. Il marchese incolla nel suo diario una paginetta
nella quale un “prete riguardevole”, tal Alessi che del Tribunale
dell'Inquisizione era stato “consultore”, oramai sciolto dal
vincolo del segreto, racconta sommariamente i casi del benedettino
eretico. Nel rivolgere all'Alessi un ringraziamento il Villabianca
rende noto che gli ha fatto un graditissimo dono: il breviario di
don Mariano Crescimanno. Lo conserverà in biblioteca come “reliquia
di un celebre malfattore”.
Su questa stranezza (il virtuoso aristocratico che conserva come reliquia un oggetto “maledetto”) Leonardo Sciascia formula alcune congetture, ma nessuna lo soddisfa (e ci soddisfa), onde ricorre a una metafora borgesiana, paradossale, quella secondo cui in un qualche “oltremondo” l'ortodosso e l'eretico, il persecutore e la vittima, risultano essere una sola persona.
Su questa stranezza (il virtuoso aristocratico che conserva come reliquia un oggetto “maledetto”) Leonardo Sciascia formula alcune congetture, ma nessuna lo soddisfa (e ci soddisfa), onde ricorre a una metafora borgesiana, paradossale, quella secondo cui in un qualche “oltremondo” l'ortodosso e l'eretico, il persecutore e la vittima, risultano essere una sola persona.
Io
ho una spiegazione meno metafisica, più terra terra, suggeritami da
un colloquio cui mi è toccato di assistere il 30 agosto, tra le 12 e
mezza e l'una.
Aspettavo
la partenza dentro il bus della linea F, l'unica che mi consentiva di
giungere a casa senza fare lunghi tragitti o rampe di scale per me
insalubri (adesso hanno tolto anche quella). Due giovani autisti
chiacchieravano nell'attesa di turni e di strade bloccate per lavori.
“Ho mandato dal micòc
una coppia di siciliani che cercavano una trattoria tipica. Ci
possono arrivare?”. L'altro sembrava un po' perplesso sul locale,
ma assicurava che sarebbero giunti a destinazione. “Figurati –
aggiungeva il primo - volevano andare a vedere la casa di Meredith!”.
“Tutti un po' strani questi siciliani” - concluse l'altro. Ero
tentato di aprire una discussione, di ricordare che per un paio
d'anni da tutte le parti d'Italia veniva gente per vedere e
possibilmente visitare quella casa: il fascino per il delitto e per
l'orrore è diffuso a tutte le latitudini. Non l'ho fatto per non
innervosire l'autista, non si sa mai.
Neanche leggendo in Sciascia della curiosa reliquia dell'aristocratico bigotto ho trovato ragioni per attribuire alla sicilianità la speciale attenzione del marchese verso il presunto eretico, prima torturato e poi rinchiuso nel carcere del dammuso; ma ho ripescato nella memoria altri pezzi dai Diari del Villabianca che avevano al centro fatti di sangue, quasi sempre raccontati con una morbosa compiacenza. L'attrazione per l'orrore nel marchese di Villabianca, pur non raggiungendo i vertici di sublime e trasgressiva crudeltà caratteristici di un altro, più celebre marchese, è presenza significativa, ma non credo abbia rapporti con la Sicilia. Codesta attrazione, peraltro, è più diffusa di quanto non si immagini e, opportunamente alimentata, riesce a contagiare individui e gruppi di ogni ceto e condizione in ogni epoca e regione, dal tempo dello spettacolo della forca a quello dei delitti televisivi. Non di rado accompagna il bigottismo religioso.
Neanche leggendo in Sciascia della curiosa reliquia dell'aristocratico bigotto ho trovato ragioni per attribuire alla sicilianità la speciale attenzione del marchese verso il presunto eretico, prima torturato e poi rinchiuso nel carcere del dammuso; ma ho ripescato nella memoria altri pezzi dai Diari del Villabianca che avevano al centro fatti di sangue, quasi sempre raccontati con una morbosa compiacenza. L'attrazione per l'orrore nel marchese di Villabianca, pur non raggiungendo i vertici di sublime e trasgressiva crudeltà caratteristici di un altro, più celebre marchese, è presenza significativa, ma non credo abbia rapporti con la Sicilia. Codesta attrazione, peraltro, è più diffusa di quanto non si immagini e, opportunamente alimentata, riesce a contagiare individui e gruppi di ogni ceto e condizione in ogni epoca e regione, dal tempo dello spettacolo della forca a quello dei delitti televisivi. Non di rado accompagna il bigottismo religioso.
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