Francis Scott Fitzgerald
nel 1931, nel momento più alto della sua popolarità di scrittore,
guadagnava 4.000 dollari a racconto pubblicato sulle maggiori riviste
dell’epoca. All’anno rimediava la non trascurabile cifra di
40.000 dollari. Nel 1935 le sue entrate per soli diritti d'autore
erano scese alla miserabile cifra di 33 dollari. Un disastro.
Riusciva a malapena a spedire settimanalmente per posta un assegno di
30 dollari per coprire le spese personali alla figlia Scottie che
frequentava con discutibile profitto il prestigioso ed esclusivo
college di Vassar (N.Y.). Negli ultimi anni della sua vita
Fitzgerald, il celebrato cantore della felicità, dello spreco, del
successo, del fascino, e del denaro, l’interprete sublime e
insuperato delle perenne illusoria festa, l’animatore instancabile
della New York dell’«età del jazz», il leggendario interprete
della fama e della ricchezza, era indebitato fino al collo. Da grande
e blasonato frequentatore di salotti mondani, era diventato un
esangue e infimo dispensatore di pochi e sudati spiccioli a una
figlia, peraltro alquanto fatua, distratta e irresponsabile. Sempre
più spesso doveva a muso duro e con violenza mortificante scontrarsi
con i numeri: 6 giorni a Sea Island a $ 13.00 = $ 78.00, 2 regali $
40.00, Treno $ 100.00, Vestiti $ 50.00, Spese $ 50.00, Totale $
310.00 (incluso l’errore della somma), e così via. Segnava tutto,
anche il costo dei singoli francobolli.
Queste notizie e molte
altre assai interessanti, si possono leggere nell'agile e documentato
libro Francis Scott Fitzgerald Lettere a Scottie (Archinto
editore, pp. 208, € 18.50), tradotto e curato con grande competenza
da Massimo Bacigalupo. Le lettere di Fitzgerald alla figlia furono
pubblicate la prima volta negli Stati Uniti nel 1963, ma la
pubblicazione considerava solo quelle inviate dal grande scrittore e
non le risposte della figlia. Il libro in questione fa ammenda di
questa lacuna e finalmente restituisce al lettore un quadro completo
e complesso (grazie appunto alle lettere inedite di Scottie tradotte
per la prima volta in Italia) dei tortuosi rapporti correnti tra
genitore e figlia. Il lettore innamorato degli intrighi societari,
dei giochi salottieri di potere più o meno improbabili, delle
macchinazioni diaboliche, dei miti di carta ecc., rimarrà un po’
deluso. Dalle lettere emerge, forse più gigantesco che mai, un
Fitzgerald deliziosamente incantevole, morbido e spigoloso (a volte),
un eccezionale padre di famiglia (anche nei confronti di Zelda, la
moglie ricoverata in una clinica per malattie mentali), un mite e
instancabile lavoratore, un uomo onesto e preciso, un moralista
puntiglioso e pignolo con vocazioni didattiche quasi estreme, insomma
un uomo responsabile che cerca di indirizzare la vivace figlia
adolescente verso un approccio con la vita meno turbinoso e
insensato. È paziente e costruttivo con lei, le descrive con
sincerità disarmante i suoi probleijii di scrittore in crisi, le sue
angosce, le paure, le dà consigli preziosi sulla scrittura (anche la
giovane figlia nutre precocemente ambizioni letterarie), le indica
gli autori che deve assolutamente leggere (i classici), le dà
lezioni di stile, la incoraggia a esprimersi al meglio in ogni
occasione.
È spietato e quasi
feroce nel descrivere l’ambiente di Hollywood per il quale lavora
(malvolentieri:
l’acclamato romanziere
impara a scrivere sceneggiature!): «...al Tennis Club l'altra sera
Errol Flynn ci ha raggiunto: sembrava molto simpatico anche se
piuttosto sciocco e fatuo». Hollywood per lui è semplicemente un
artificio disumano, un mondo freddo e rovinoso, è un panorama
irreale, un inferno rancoroso dove le ustioni e le bruciature fanno
vittime con mostruosa facilità. In quel mondo selvaggio ovviamente
Fitzgerald è un pesce fuori dell’acqua: «In ogni caso il cinema è
una vita noiosa e si spera di essere capaci di superarla», scrive in
una lettera del ’39 alla figlia. Secondo il parere (perentorio come
al solito) della Stein, Fitzgerald possedeva da solo più talento di
tutti gli altri scrittori messi assieme della lost generation.
Tuttavia non era molto fiducioso nelle proprie capacità, nei propri
mezzi espressivi (i fallimenti della prima parte della sua vita, i
disastri finanziari del padre e il conseguente ridimensionamento
delle ambizioni
sociali della famiglia,
l’avevano reso fragile psicologicamente), e questo risulta evidente
nella corrispondenza con la figlia: «Non scoraggiarti più di tanto
perché il tuo racconto non è perfetto. Allo stesso tempo, non ho
intenzione di incoraggiarti a riguardo, perché, dopo tutto, se vuoi
fare sul serio e avere successo, devi avere i tuoi ostacoli da
superare e devi imparare dall’esperienza. Nessuno è mai diventato
scrittore solo perché voleva diventarlo. Se hai qualcosa da dire,
qualcosa che senti che nessuno ha detto prima, devi sentirlo così
disperatamente che troverai un modo per dirlo che nessuno ha mai
trovato, così la cosa che devi dire e il modo di dirla si mescolano
come una materia unica: indissolubili come se li avessi concepiti
insieme».
Questa citazione
appartiene a una lettere scritta il 20 ottobre 1936. Dunque la
giovane e spavalda Scottie aveva l’invidiabile e insostituibile
fortuna di partecipare privatamente a intense ed elaborate lezioni di
tecnica narrativa (e non solo) impartite, con pazienza e tenacia, da
un insegnante d’eccezione, cioè dall’autore di alcune delle
pagine più rigorose e perfette della letteratura americana del
Novecento. Non dimentichiamo, per inciso, che Fitzgerald aiutò
Hemingway (i due erano amici e a loro modo si stimavano), in lunghe
sedute spesso alimentate da toni accesi e battaglieri propositi, a
comporre il notissimo Fiesta: per entrambi una prosa densa e
concentrata, ma in apparenza limpida e spontanea, scorrevole come
l’acqua. Nondimeno Fitzgerald non incita la figlia solo ad
affrontare il «mestiere» dello scrittore con rabbia e
determinazione, le proibisce anche, per esempio, di fumare, di
spendersi troppo dietro a ragazzi superficiali e insignificanti (sono
preferibili quelli che hanno un solido futuro economico), di
partecipare a continue feste più o meno scolastiche, e così via. La
figlia, in ogni caso, dimostra grinta e caparbietà, tiene testa al
genitore famoso con energia, gli risponde con garbo e intelligenza: è
giovanissima e idealista, estrema-mente vitale, umorale, ama i
piacere della vita, ama il rischio, l’azzardo, insomma sembra tutta
il padre da giovane! Infatti non a caso Fitzgerald, nei panni del
padre premuroso e del sapiente maestro di vita, invita, anche
energicamente, la gaudente figlia a non ripetere gli errori da lui
stesso commessi da giovane; ciononostante Scottie gli ricorda molto,
troppo da vicino la sua tumultuosa e dissoluta vita condotta, con la
complicità della moglie Zelda (altra aspirante scrittrice), in anni
ormai considerati remoti e definitivamente tramontati. L’autore del
Grande Gatsby, rimosso dai lettori, è stato dimenticato da
tutti, agisce ormai fuori dalla nuova realtà culturale e sociale che
si sta profilando (la seconda guerra mondiale è alle porte), non
vende una copia, addirittura gli editori lo evitano, è diventato
alcolizzato, il «cinismo dei molto ricchi» gli si è rivoltato
contro: gli è rimasto solo l’orgoglio. Ecco allora che manda in
uno dei colleges più esclusivi (pur senza poterselo
permettere) l’unica figlia che ha e dalla quale spera di ottenere
in cambio (simbolicamente) una affettuosa redenzione, una seconda
vita ripulita e trasparente, un nuovo marchio di garanzia, una faccia
più presentabile per l’aldilà.
Alias – il manifesto,
27 SETTEMBRE 2003
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