Qualche anno fa mi capitò
di proporre — un po’ per scherzo, un po’ sul serio — la
costituzione dell’« Associazione segreta lettori di Jack London ».
Non direi che alla proposta abbia arriso grande fortuna. L’unica
adesione ufficiale è stata quella di Sebastiano Timpanaro, che
potrebbe però bastare, trattandosi di un filosofo e filologo
illustre. Tanto più che egli la motivava ricordando quanto Jack
London piacesse al partigiano « Potente », un uomo a lui molto
caro.
Tuttavia l’Associazione
caparbiamente esiste. Anzi, si può anticipare qualcosa
dell’arredamento della sede (se ne avesse una): sulle pareti
spiccano i ritratti del “londoniani” di maggior prestigio: da
Lenin (che leggeva Amore della vita due giorni prima di
morire) a Trotzkij; da Gramsci, che chiedeva libri di London dal
carcere di Turi, a Majakovskij, che scrisse una riduzione teatrale di
Martin Eden, a Ernesto Che Guevara, (che deve il nome proprio
al protagonista del Tallone di ferro (Ernest Everhard), un
libro che era d’obbligo una volta nelle bibliotechi-ne di sezione
dei partati operai.
Intanto, mi azzardo
tranquillamente a iscrivere all’Associazione gli studiosi che più
hanno contribuito al revival londoniano di questi ultimi anni con
l’avallo dato alla ripubblicazione delle sue opere più famose:
Vito Amoruso (Farsi un fuoco, De Donato, 1972); Goffredo Fofi
(Il tallone di ferro, Feltrinelli, 1972); Nanni Balestrini
(Martin Eden, Sonzogno, 1974); Francesco Saba Sardi (Zanna
Bianca, Sonzogno, 1974) ; Oriana Fallaci (Il richiamo della
foresta, Rizzoli, 1975) ; Giorgio Bocca (Il richiamo della
foresta, Savelli, 1975) ; Alessandro Rofferri (La strada,
Guanda, 1976); Alessandro Gebbia (La lotta di classe, Lerici,
1977); Maurizio Flores D’Arcáis (Il richiamo della notte,
Feltrinelli, 1977).
Borges presidente
Presidente onorario
dell’Assocdazione non può che essere Jorge Luis Borges, autore
dell’introduzione a Le morti concentriche (Franco Maria
Ricci, 1975).
A questo punto ci sono
ancora delle ragioni perché l’Associazione rimanga « segreta »,
malgrado tutti questi accreditamenti? Ritengo di sì. Perché in
fondo Jack London la sua legittimazione letteraria vera e propria non
l’ha ancora avuta. Gli pesa addosso — ancora — la sufficienza
con cui è stato trattato dai tre padri fondatori dell’americanistica
italiana: Cecchi, Pavese e Vittorini, che lo giudicavano francamente
rozzo e volgare. Gli pesa addosso l’accusa di scrivere «male» (e
come poteva scrivere «bene» uno scrittore che sfornava tre libri
all’anno?).
Non è un’accusa che lo
collochi in una cattiva compagnia. Anche di Italo Svevo si sostenne a
lungo che non sapesse scrivere in un italiano decente. E quelli che
hanno la sfortuna di poterlo leggere in originale sostengono che
Dostoevskij scrive malissimo: beati noi che lo leggiamo in
traduzione, così non ce ne accorgiamo. Questo non per dire,
naturalmente,che lo stile non è importante. Mia per insinuare il
sospetto che la nostra concezione dello stile è a volte impotente.
E dietro lo stile, ci
deve essere qualcos’altro. Cercherò di chiarirlo con un esempio.
Venticinque anni fa Carlo Cassala scrisse per “Il Mondo” un pezzo
di costume - molto bello: Eros metafisico. Descriveva un
giovanotto di quartiere, Eros, volgarone e sentimentale, dedito
soprattutto alla caccia alle serve. Questo Eros chiese un giorno allo
scrittore cosa ne pensasse della metempsicosi. Lui ci credeva.
L’aveva convinto la lettura di un libro di Jack London, Il
vagabondo delle stelle. C'è
quanto basta per squalificare – incidentalmente e certo
involontariamente - qualsiasi libro (e difatti mi sono
guardato bene dal leggerlo: Jack London era la metafisica dei
dongiovanni di periferia.
Un condannato a
morte
Ma si dà il caso che Il
vagabondo delle stelle (« The Star Rover ») sia stato ripescato
e ripubblicato l’anno passato dalla Corgi Books, una casa editrice
inglese specializzata, come un classico della fantascienza.
Questo mi ha incuriosito,
incoraggiato a leggerlo. E per quanto si tratti di un libro che
appartiene all’ultima produzione di London (1915), scritto alla
disperata quando l’autore aveva un disperato bisogno di quattrini,
Il vagabondo delle stelle è un romanzo assolutamente
straordinario. Già nell’invenzione della vicenda. Che non è
affatto una scorribanda patetica nel regno della trasmigrazione delle
anime. E’ la storia di un condannato a morte, scritta con tanta
energia da far tornare alla mente le famose travolgenti cento pagine
finali della Tragedia Americana di Dreiser (un altro che
scriveva « male », a proposito) dedicate allo stesso tema.
Dentro il tema, c’è
una variazione. C’è un segreto che il protagonista, condannato a
morte, non vuol spifferare. Anche se lo stringono in una specie di
camicia di forza che gli permette appena di respirare. Ma lui ha
capito come fare per resistere. Si lascia svenire. E in questa specie
di morte vive delle altre vite. Delle esistenze fantastiche. Ma tutte
contrassegnate da un elemento in comune. Si svolgano nel Settecento
francese o nell’antìchità romana, sono esperienze di resistenza
al potere, di tenacia, di rabbia paziente e contenuta, di «collera
rossa», come lui la definisce («red wrath»). E se fosse questo il
tema che Jack London ha sempre trattato: resistere, non darla vinta,
non darsi mai per vinto, tenersi rabbiosamente abbarbicato alla vita?
Si capirebbe allora
perché London piaceva più a Lenin, al partigiano Potente, e meno ai
nostri letterati degli Anni Trenta. Certamente dignitosi e raffinati,
certamente non accademici, ma che vivevano pur sempre in una civiltà
letteraria dove le facoltà umanistiche si chiamavano ancora Facoltà
di Belle Lettere, nelle quali si insegnavano le Buone Maniere,
praticate poi dalla Belle Statuine.
“la Repubblica”,
mercoledì 27 luglio 1977
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