Il messaggio di uno scrittore
pacifista e socialisteggiante alla borghesia dell'Inghilterra
vittoriana
A rileggerlo oggi, La macchina del tempo (B.U.R., 1975), il celebre romanzo avveniristico che H.G. Wells pubblicò nel 1895, serba intatti la sua presa narrativa, il fascino di un racconto che nel suo perfetto e lineare intreccio rappresenta ormai un classico, quasi un modello archetipico in quella particolare forma di letteratura d’intervento sul presente che è la narrativa utopistica e fantascientifica.
E’ ovvio, tuttavia, che il suo
valore, il piacere stesso di una rilettura non stanno nelle così
dette qualità «profetiche» del libro: in verità, oggetto
dell’interesse non è il futuro, il remoto e terribile anno 802701
in cui con un balzo formidabile nella «quarta dimensione» lo
scienziato inventore della macchina è catapultato, ma il presente
più attuale, o meglio qualcosa che in esso rivela una sinistra
potenzialità, una drammatica fase di crisi e di svolta, un punto di
non ritorno che l’incursione fantastica nello ipotetico futuro non
solo esplicita sino in fondo ma, quel che più conta, deve servire a
non realizzare, esorcizzando nella mostruosità del quadro immaginato
l’apocalisse del suo possibile avverarsi.
Il presente a cui Wells si rivolge sono
l’Inghilterra vittoriana con gli immensi, drammatici problemi
propri a una società fortemente industrializzata. orgogliosa dei
suoi progressi teenolosici e scientifici, del suo vasto imparo, della
sua missione civilizzatrice, e. in essa, quella classe intellettuale
che attraverso l’adesione al «darwinismo sociale»,
all’evoluzionismo di Spencer, al mito stesso della scienza come
nuova fede risolutrice d’ogni contrasto sociale, aveva sposato la
causa del capitalismo e del suo modello di società, anche là dove
sembrava opporgli il modello alternativo di un socialismo utopistico,
proiezione estrema, agli occhi di Wells, dell’ingannevole progresso
legato alla diffusione del benessere materiale, del Welfare State.
Preistoria
Il futuro, dunque, che La macchina
del tempo nitidamente evoca, non è che una estensione
radicalizzata del presente. Perciò è rappresentato non
semplicemente come un inveramento di quest’ultimo ma, più
esattamente, come una sua inversione, innanzi tutto temporale, un suo
compiersi senza ritorno, congiungendo l’inizio del mondo, oscuro e
preistorico, alla sua «fine» futura che lo ripete e insieme lo
chiude, definitivamente ne blocca l’evoluzione. Questa idea del
tempo, del suo scorrere, avverarsi e fermare, è da Wells ovviamente
mutuata da Spencer, ma rovesciata in negativo: perché anche Spencer
immaginava una lenta evoluzione, un progresso costante, ma non
all’infinito. Idealizzata, elevata a modello, la forma temporale
del suo progresso rendeva definitivo il modello di rapporti sociali
propri al capitalismo nella sua fase matura. Wells ne riassume lo
schema strutturale ma di quella proiezione ottimistica ci mostra,
come di una foto, il negativo.
Il futuro degenera in passato e proprio
per questo non è che un immobile, mostruoso, possibile presente, uno
spazio informe in cui ogni vita è assente perché ogni
contraddizione, ogni tensione, ogni complessità è sparita: tutta la
semplicissima ma efficace struttura narrativa e ideologica del
romanzo è poggiata su questa idea del tempo come falso moto in
avanti, come rivolgimento verso un punto che non volgerà più.
Cosa incontra il Viaggiatore del Tempo
sbarcando nel futuro? Significativamente, un mondo ugualmente diviso
in due classi contrapposte ma collocate a due piani diversi, i
raffinati, civilissimi e infantili Eloi (gli eredi ultimi della
borghesia capitalista) sopra, alla superficie della terra, in un
paesaggio che è uno smaltato, delicato e ubertoso giardino
d’Arcadia, e i Morlocks (i discendenti della classe operaia)
scimmieschi e lunari sotto, nelle buie, cavernose viscere della
terra. La contrapposizione dunque permane, solo, essa non è più né
dialettica né storica, ma verticale e biologica. È vista, insomma,
come una pericolosa separazione definitiva fra alto e basso, e questa
volta la barbara novità è data dal fatto che è la classe un tempo
schiava e sfruttata a dominare, sono i Morlocks a nutrirsi di quel
bestiame da pascolo, gli inermi Eloi.
Non a caso la prima ingannevole
immagine edenica che si presenta al viaggiatore, quel paesaggio che
sembra aver cancellato ogni traccia di lotta, di fatica, di bisogno,
con gli estenuati Eloi che vivono solo per danzare, amare come in un
gioco, nutrirsi di sola frutta, gli fa pensare a una utopica società
comunistica. In realtà, l’amara ironia è evidente: gli Eloi non
sono che una larva di vita, un decadente crepuscolo, ogni luce
intellettuale in essi è spenta, il loro corpo è un guscio vuoto
rattrappito in una grazia decadente, in una rosea, febbrile bellezza
preraffaelita e tubercolotica. Più che della borghesia, sono gli
ultimi patetici eredi della sua classe colta, il loro estetismo fin
de siècle non è che lo spento ricordo di una coscienza
intellettuale che una volta guidava il mondo. Non a caso il
Viaggiatore del Tempo, pur condannandoli e trovando inevitabile la
loro estinzione, è solidale con loro, perché più totale, più
inorridito, è il rifiuto dei Morlocks, cose repellenti e morbide,
dai « pallidi volti privi di mento, enormi occhi senza palpebre »,
simili a scimmie, ragni, topi, pesci dell’abisso.
I Morlocks
I Morlocks già anticipano ciò che poi
sarà il vero destino a venire dell’umanità e dell’intera terra:
i mostruosi granchi limacciosi e tentacolari che abitano un paesaggio
ancor più remoto e spento d’ogni traccia di vita, una mera crosta
coperta dal verde livido dei licheni già prossima alla glaciazione
finale. Ed è su questa visione da apocalisse, da fredda e quasi
incantata profezia che si chiude il viaggio nel tempo. L’angoscia
che vi domina non toglie, tuttavia, che una profonda razionalità, un
limpido e esemplare «sugo della storia» governino parabolicamente
il racconto.
Non v’è dubbio, infatti, che l’anno
802701, quello della immobile opposizione fra Eloi e Morlocks, non è
esso stesso il vero futuro in tutta la sua possibile degradazione, ma
appena un punto intermedio, una tappa fra esso e il presente, anzi è
l'estremo ma ancora, sia pure aberrantemente, umano stadio di questa
civiltà e di questa storia. Proprio per questo, diversamente dal
silenzioso futuro di ghiacci e cupa tenebra, è ancora passibile di
modificazione, aperto all’intervento: il viaggio e il racconto di
esso, sono serviti a questo.
Coerentemente alla sua difesa di una
letteratura militante e pedagogica e al suo altrettanto netto rigetto
di un’arte «che non discute, che non dimostra, che non scopre»,
(come egli disse nella famosa polemica con Henry James), Wells vuole
persuadere a qualcosa, lanciare un monito, individuare un
interlocutore e un destinatario del racconto.
Il monito, non v’è dubbio, è tutto
nell'invito a evitare la degradante paralisi sociale a cui può
portare un ottundente benessere e un indiscriminato, fiducioso
progresso scientifico. Mutuando dal biologo Thomas Huxley una lettura
pessimistica del darwinismo, Wells se ne serviva per sottolineare
drammaticamente come lo spegnersi d’ogni conflitto di classe, ad
ogni livello, fosse non solo impossibile, ma addirittura da non
augurarsi. Con esso si spegne la vita, degrada animalescamente la
umanità, si polarizza astoricamente la lotta di classe. Il monito è
rivolto alla borghesia e, per essa, soprattutto ai suoi intellettuali
e la sostanza del «messaggio» è squisitamente politica:
recuperare la propria funzione «illuminata» di guida della società,
ridarsi una acuta e avanzata coscienza di sé come classe, riscoprire
il primato del politico sull’economico, della coscienza, delle
idee, dei valori, sul benessere materiale al fine proprio di evitare
il destino suicida degli Eloi. Nella Macchina del tempo è già
anticipata la posizione che l’intellettuale Wells, pacifista e
socialisteggiante, strenuo difensore di una lega internazionale delle
Nazioni, assumerà in seguito, durante e dopo la prima guerra
mondiale, quando, scettico verso le masse e la loro capacità di
autogovernarsi, caldeggerà un governo di «samurai», ovvero di una
élite di intellettuali, tecnocrati, managers.
l’Unità /
sabato 3 gennaio 1976
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