Nella sera di giugno, gli
alberi ai lati della strada erano in fiore e c'era un profumo,
nell'aria, e un brusio. Conoscete, signori, quest'ora? Non è più
giorno e ancora non è notte, la luce comincia a languire (chi di noi
non si fermò una sera tra gli oleandri? Gli occhi di lei diventarono
improvvisamente fondi, grandi e scuri nel crepuscolo). La città,
ronzante e fervida come un alveare, è percorsa in tutti i sensi da
auto all'impazzata. Goffredo camminava in silenzio al fianco di
Silvia, accompagnandola, per la ventesima sera consecutiva, verso la
casa di lei.
«Ho pensato...», disse
improvvisamente al momento di separarsi decidendosi a parlare.
Silvia drizzò le
orecchie; una voce interna le aveva detto: "Ci siamo".
«Ho pensato...».
Fermi all'angolo,
Goffredo fissava intensamente un pezzo del marciapiede, tracciandovi
sopra ghirigori con la punta della scarpa. Disse in fretta, con una
voce sorda e arrossendo tutto, che ormai aveva deciso di parlare al
proprio padre.
«Gli ho già accennato
qualcosa», aggiunse, «e del resto, papà deve aver indovinato da un
pezzo. Ma stasera gli dirò tutto».
Poi Goffredo disse,
sempre in fretta, che, non appena parlato al proprio padre, intendeva
presentarsi con lui ai genitori di lei; e disse a Silvia che li
prevenisse e fissassero la data per un giorno della prossima
settimana.
Era fuor di dubbio che il
padre di Goffredo, vedovo da alcuni anni e con quell'unico figlio,
avrebbe fatto tutto ciò che questi desiderava. Dopo aver parlato,
Goffredo fissò per un attimo la ragazza negli occhi e scappò.
Allora tutti gli alberi in fiore si misero a girare intorno a Silvia.
Poi, mentre da sola lei
stava facendo di corsa gli ultimi cinquanta metri verso casa, e
ancora gli alberi le giravano intorno, Silvia sentì a un tratto
quasi una puntura nel cuore, come chi improvvisamente avverta il
dolore d'una ferita di cui s'era un momento dimenticato, ma che è
sempre lì, presente. Suo padre! Goffredo e il padre di lui
l'avrebbero avvicinato, avrebbero parlato con lui. Silvia sentì come
una mazzata sulla testa.
Il cavalier Odoardo era
il miglior uomo del mondo, tutto cuore, incapace di far male a una
mosca. Padre esemplare, insomma, benché ancora in vita. E non è
nemmeno a dire che fosse poco presentabile, anzi! Giovanile, curato,
addirittura elegante. Era un padre da andarne fieri. Ma una negra
nube oscurava il roseo di questo cielo: il cavalier Odoardo aveva
l'abitudine, in famiglia e talvolta anche fuori, di punteggiare i
propri discorsi con un'esclamazione orrenda.
Egli non annetteva alcun
significato sconveniente alla parola, che gli usciva di bocca, per
così dire, contro la sua volontà, specie quando lui s'accalorava
nel discorso. Era per lui quasi un intercalare inteso a dare forza al
suo dire. Perché, quel ch'è peggio, egli non soltanto usava la
parola come esclamazione nei momenti di foga, ma spesso la impiegava
come rafforzativo generico, del tutto pleonastico, in quanto se ne
sarebbe potuto benissimo fare a meno.
Per darvene un'idea:
ammettendo che la parola, che mi rifiuto di trascrivere, sia cribbio,
egli, oltre ad usarla a proposito e a sproposito come interiezione e,
quel ch'è più strano, sia nei momenti di stizza, sia in quelli di
buon umore, la usava anche nei momenti di calma, in costruzioni del
genere di: quel cribbio del cavalier Tale; o: che cribbio
dici? che cribbio fai? e perfino: con tanti cribbi di
guai che abbiamo; o: gli dò tanti cribbi di calci nel sedere,
eccetera.
Questo avveniva
specialmente a tavola, anche se c'erano estranei, e pareva che né
essi né il cavalier Odoardo dessero la minima importanza alla cosa.
E avveniva anche solitamente in conversazione. In sostanza, avveniva
sempre.
Achille Campanile |
Per Silvia, fin da
bambina, questo era stato un serio motivo d'angoscia. Un tempo ella
si considerava addirittura condannata a restar zitella, perché mai
avrebbe avuto il coraggio di mettere il fidanzato a parte d'un così
atroce segreto. Non era possibile sposarsi, senza che l'uomo
prescelto entrasse in casa e avvicinasse il genitore. Sarebbe stata
anche una cosa crudele per Silvia, che amava teneramente suo padre; e
lo sarebbe stata anche per suo padre, che, a parte questo difetto,
non aveva alcun torto verso la famiglia. Ma, se il fidanzato l'avesse
avvicinato, era fuor di dubbio che, dopo pochi minuti, avrebbe udito
dalle sue labbra l'orrenda parola. E Silvia preferiva piuttosto
morire. E si vedeva suora, votata per la vita a un'esistenza
claustrale, fuori del mondo, piuttosto che costretta a far sapere
all'uomo amato che in casa sua si usava abitualmente una simile
parola.
Ora il nodo era venuto al
pettine, il paventato momento si profilava all'orizzonte,
s'avvicinava come un drago dalle fauci spalancate, che avrebbe
ingoiato la felicità della ragazza. Poiché la parola scappava fuori
con maggior frequenza nei momenti d'espansività e di buon umore, era
più che certo che, superato quel cortese imbarazzo che suole
accompagnare il primo incontro col futuro marito della figlia,
l'esuberante e cordiale cavalier Odoardo si sarebbe presto sentito a
proprio agio e, quel ch'è peggio, a causa della viva simpatia e
addirittura dell'affetto ch'egli non avrebbe mancato di provare
subito per l'uomo che aspirava a impalmare la cara figliola, si
sarebbe sentito d'ottimo umore, e quindi nella disposizione d'animo
più favorevole per lo sganciamento, alla prima occasione, d'una ben
nutrita sfilza di quelle che abbiamo sostituito con la parola
cribbio. E allora a che servivano i collettini di pizzo
inamidati, le mani curate, i pallori e i rossori di lei, quando papà
con un cribbio avrebbe tutto cancellato?
Silvia, annunziando con
molti rossori la prossima visita dell'innamorato e del padre di lui,
confidò le proprie apprensioni alla mamma, che le divideva
pienamente e che s'incaricò di parlarne al marito; e il primo
risultato del colloquio con lui fu un formidabilissimo cribbio
uscito di bocca al brav'uomo suo malgrado, alle prime parole della
consorte, e che quasi fece svenire Silvia, che origliava tremebonda
dietro la porta.
«Papà, ti scongiuro!»,
disse poi la ragazza, appena si fu rimessa dal colpo, facendo
irruzione nella stanza e gettandosi ai piedi del genitore. E tutti
fecero coro, mentre Odoardo, confuso e commosso suo malgrado, andava
balbettando: «E che cribbio!, manco fossi un imbecille», e
frasi del genere, in cui, per quanto egli facesse attenzione e si
sforzasse, e forse proprio per questo, l'orrenda parola finiva sempre
per venir fuori, sia pure mugolata; al che egli, accorgendosi
d'averla detta, la ripeteva con stizza a gran voce, in segno di
protesta contro se stesso.
Perfino la vecchia
fantesca, di solito ammessa a presenziare con semplice voto
consultivo ai consigli di famiglia, imprevedutamente trovò accenti
d'un'eloquenza che stupì tutti. È sempre antipatico, disse in
sostanza, sapere che la persona amata vive in un ambiente, diciamolo
pure, poco fine, o poco castigato, almeno quanto al linguaggio;
tuttavia, passi per l'uomo; ma la fidanzata! questa fanciulla che
l'innamorato considera un essere quasi angelico, questo giglio,
questa creatura di sogno (e tale, in realtà, era Silvia); con che
cuore si può farla immaginare dall'innamorato come nata e cresciuta
in un'atmosfera irta di quell'odiosa esclamazione? Bisogna anche dire
che Silvia, per non esser da meno di Goffredo, unico delicato
germoglio d'un padre oltremodo raffinato, gli aveva fin dai primi
giorni descritto il proprio genitore come la quintessenza della
raffinatezza. Dunque, era assolutamente necessario che Odoardo si
controllasse, almeno nei primi incontri. Poi si sarebbe visto.
Magari, evitando contatti troppo frequenti.
In pigiama, seduto sulla
sponda del letto, Odoardo stava a sentire tutti quei discorsi a capo
chino come un colpevole, con le lagrime agli occhi, pentito e
addolorato sinceramente, e ogni tanto si grattava con rabbia
l'arruffata capigliatura e si mordeva le labbra, perché stava per
uscirgli con un sospiro la maledetta parola.
Promise drammaticamente.
Ma nessuno si fidava
delle sue assicurazioni e si studiò qualcosa di più efficace. Che
egli restasse zitto per tutta la durata della visita, non era né
possibile né desiderabile. E non sarebbe stato nemmeno umano.
Ettore, il maggiore dei figli, propose di sostituire il termine con
altro, magari inventato, che non avesse nessun significato, visto che
il significato non entrava per niente nell'esclamazione. Ma, dopo
aver provato con lara, tero, tosi e altri
neologismi, si capì che essi, oltre a non essere un efficace
surrogato per Odoardo (era come dare uno stuzzicadenti a un fumatore
accanito, per sostituire le sigarette che ha a portata di mano),
avrebbero imposto al poverino un troppo grande sforzo mnemonico e
d'attenzione.
Fu deciso allora d'usare
un qualsiasi mezzo per ricordargli, nei momenti pericolosi, di non
usare l'esecrata parola. Ma nemmeno questo era facile, poiché essa
veniva fuori, per così dire, a tradimento, anche senza apparente
giustificazione, e quindi era assai difficile, per non dire
impossibile, avvertirne l'approssimarsi e correre in tempo ai ripari.
Tuttavia, poiché gli usciva di bocca soprattutto quand'egli si
infervorava, si pensò a un mezzo meccanico. Qualcuno propose un
campanello. C'era per l'appunto in casa un vecchio campanello da
tavola e si fece una prova. La quale, però, non dette risultati
soddisfacenti, perché Odoardo era talmente avvilito che, per tutta
la durata dell'esperimento, non disse che poche parole scialbe, le
quali non reclamarono mai l'uso del campanello. E poi tutti furono
concordi nel riconoscere che l'impiego di esso, anche se efficace,
cosa molto problematica, avrebbe dato alla riunione un carattere
d'assemblea parlamentare, odioso quanto enigmatico.
Anche l'impiego di
normali mezzi di prevenzione e repressione (tirare Odoardo per la
giacca, dargli di gomito o un piccolo calcio sotto la tavola quando
si stesse infervorando), a un attento esame si manifestò pieno
d'incognite, soprattutto per una ragione; la parola soleva uscire
fulminea, quindi il piccolo calcio, la gomitata o che so io,
sarebbero arrivati dopo o, nella migliore ipotesi, insieme con
l'esclamazione da reprimere, aggravando la situazione.
Occorreva un sistema
acciocché Odoardo si ricordasse in ogni momento che non doveva per
nessuna ragione usare la parola. Qualcosa come un metronomo che col
suo tic-tac ripetesse incessantemente al brav'uomo: "bada, bada,
bada", "non la dire, non la dire, non la dire", senza
destar l'attenzione di estranei.
Ma anche questo era
difficile e inefficace, anzi pericoloso: di fronte a uno strumento
del genere, o, che so io, a una lampadina di colore speciale
costantemente accesa, o a un ventilatore in moto, o a un turibolo
fumante, Odoardo avrebbe finito col non prestarvi attenzione, o più
probabilmente con l'esplodere proprio nella paventata esclamazione
nei riguardi del petulante congegnino.
Si concluse per l'uso di
fazzoletti: a turno, ognuno avrebbe tirato fuori un fazzoletto e
l'avrebbe agitato discretamente verso Odoardo, fingendo di volersi
soffiare il naso; ma per rammentargli ciò che stava a cuore a tutti,
in modo ch'egli fosse costantemente presente a se stesso.
Così s'arrivò al temuto
e agognato pomeriggio. Da una settimana la casa era sottoposta a una
toletta spettacolosa e quel giorno, fin dalla mattina, non si pensò
che all'attesa visita e non si lavorò che per essa. La vecchia
fantesca fu quasi mascherata. Si sarebbe detto che dovesse andare a
un ipotetico veglione. Malgrado le sue proteste e anche un abbozzo di
resistenza, dovette mettersi i guanti di filo bianco e la crestina
che le andava continuamente per traverso, contribuendo col palese
malumore per aver dovuto sottostare alla sopraffazione ch'era per lei
l'insolita toletta, a darle un'espressione stravolta.
Tutti parevano essere
stati strigliati a dovere ed erano un po' abbacchiati, le rispettive
personalità essendo compresse.
Ma più abbacchiato di
tutti, addirittura avvilito, benché tentasse di galvanizzare gli
altri con frasi d'incoraggiamento, era proprio Odoardo, che avvertiva
nettamente un complesso di colpa. Sicché l'arrivo dei due visitatori
avvenne in un'atmosfera di timidezza generale.
La prima a tirar fuori il
fazzoletto, più che altro a titolo di preavviso, fu Silvia. Ne aveva
presi due e li teneva bene in vista, uno per mano.
«Sei raffreddata?», le
domandò Goffredo, timidissimo, a bassa voce, con premura.
Il vecchio padre di lui,
professor Giuliano Masti d'Arena, era un tipo di studioso coi capelli
grigi e un po' lunghi e le spalle curve. Piccolo di statura, pareva
un tapiro e faceva tenerezza. I ragazzi, in anticamera, s'eran
divertiti per un pezzo a provarsi il suo cappello di foggia
antiquata, sbellicandosi alla vista dei guanti gialli che vi aveva
depositato dentro. E soltanto un paio di scapaccioni di Silvia li
aveva messi in fuga. Anche quel cappello e quei guanti facevano un
po' tenerezza, soprattutto pensando che il proprietario s'era messo
in ghingheri per venire a chieder la mano d'una ragazza per il suo
unico figlio e che probabilmente non sapeva molto disimpegnarsi,
quanto ad abbigliamento per l'occasione, perché era vedovo. Chi sa
quanto avevano parlottato, padre e figlio, nella casa deserta, prima
d'uscire per la difficile spedizione. I ritratti della mamma
guardavano dalle pareti, senza poter intervenire con un consiglio. E
forse, se i ritratti sapessero sorridere, più d'una volta avrebbero
sorriso, divertiti, oltre che allarmati, all'impaccio dei due.
In salotto, nel primo momento, c'era stato un po' di gelo. Tutti si sentivano a disagio. Il professor Giuliano Masti d'Arena parlava poco. A un "ma che..." di Odoardo, si videro quattro o cinque fazzoletti venir fuori dalle tasche, ma i visitatori non ci fecero caso.
In salotto, nel primo momento, c'era stato un po' di gelo. Tutti si sentivano a disagio. Il professor Giuliano Masti d'Arena parlava poco. A un "ma che..." di Odoardo, si videro quattro o cinque fazzoletti venir fuori dalle tasche, ma i visitatori non ci fecero caso.
Era un falso allarme. Lo
stesso Odoardo rassicurò i familiari, di lontano, con un'occhiata un
poco infastidita, e completò la frase con un "ma che diamine",
che sulle sue labbra suonò maledettamente stonato dandogli il
carattere d'uno di quegli ufficiali di fureria che nelle barzellette
d'una volta si stizzivano contro la recluta testona. E dovette essere
stato tale lo sforzo per pronunziarlo, che la frase si fermò lì,
mentre era partita come esordio.
Nessuno trovava un
argomento che appassionasse - ma non troppo, per carità, quanto a
Odoardo - tutti. Il professor Masti d'Arena, che già i ragazzi, a
bassa voce, chiamavano "il tapiro", accennò con una voce
d'oboe al caldo. Odoardo faceva di sì col capo, a labbra strette,
compitissimo con sul volto un sorriso, forzato, che somigliava a una
smorfia; e ogni tanto, con qualche ammiccamento impercettibile,
pareva rispondere: "Niente paura", a certi sguardi
imploranti o allarmati che di lontano gli rivolgeva la figlia.
S'era messo l'abito
scuro. In verità, non era molto tagliato per queste occasioni, ma si
comportava egregiamente, anche se l'emozione per la circostanza e le
raccomandazioni avute gravavano sulla sua abituale disinvoltura. Il
professor Masti d'Arena passò al tema "figli in genere, anni
che passano e vecchiaia".
Preceduti da uno scambio
d'occhiate e occhiatacce attraverso la porta e da qualche mossa
controtempo della fantesca, arrivarono i gelati e le bevande ghiacce,
e questo scaldò un po' l'ambiente.
Oltre a tutte le
precauzioni prese, i fratellini piccoli di Silvia si tenevano pronti,
come da accordi segreti intervenuti con la mamma e la sorella, a
elevare clamori festosi per sopraffare l'eventuale esclamazione, ove
questa fosse sfuggita al padre. Ma questi continuava diplomaticamente
a lasciar parlare il professor Masti d'Arena e pareva quasi
intimidito dall'aspetto pensoso di costui. Ogni pericolo sembrando
dissolto, tutti presero a conversare un poco più animatamente,
mentre i ragazzi lavoravano a vuotare i vassoi tra risatine e piccoli
litigi.
A un certo punto ci fu
una di quelle pause generali, consuete nelle conversazioni e che
fanno dire poi: è passato un Angelo.
Allora, nel silenzio,
s'udì una frase pronunciata energicamente: «e tutto il santo giorno
non fanno un amato cribbio».
L'orrenda parola era
risuonata a mezz'aria, percepibile da tutti, solo per l'improvviso
silenzio.
E a dirla non era stato
il padre della ragazza, ma il futuro suocero. Il professor Masti
d'Arena. Il "tapiro". Il raffinatissimo, concludendo un
discorso rivolto a Odoardo e relativo ai disonesti guadagni di
giovani fannulloni d'oggigiorno.
Tutti erano rimasti come
pietrificati. Silvia a bocca aperta, la donna di servizio con un
piatto in mano e con un piede alzato, la mamma col capo quasi immerso
in una torta di crema, i ragazzi con le orbite sgranate, incerti se
dovessero innalzare anche in questo caso, non preveduto, i clamori di
mascheramento; Odoardo, gli occhi sbarrati nel vuoto, lo sguardo
atono, il capo eretto, pareva la statua del "Trionfo
dell'innocenza".
Seguì un tonfo, che fece
voltar tutti: Goffredo, il fidanzato, era caduto svenuto sul
pavimento. Quando si riebbe mediante spruzzi d'acqua sul volto - e
tutti attribuirono il leggero deliquio all'emozione dell'innamorato,
e al caldo - la conversazione riprese come la musica al Circo dopo un
esercizio difficile, e Silvia trasse il giovane sul balcone.
Goffredo taceva, tetro.
La ragazza bisbigliò teneramente: «Anche papà...».
«Perché non me l'avevi
detto?», mormorò il giovane guardandola negli occhi con amore e
riconoscenza infiniti, e anche con una punta d'affettuoso rimprovero,
«se sapessi quanto ho sofferto in questi giorni!».
«E io?», sussurrò
Silvia, «pensavo che tuo padre, invece..».
«Tubano i colombi»,
fece, guardandoli di lontano il vecchio pensoso dall'aspetto di
tapiro, al quale era del tutto sfuggito il significato del dramma.
Ora, nel salotto, come
per l'arrivo di una buona notizia, tutti parevano sollevati. La mamma
di Silvia, raggiante, piena d'indulgenza e di disinvoltura, cicalava
perdutamente, i ragazzi erano in uno stato d'euforia rumorosa.
Odoardo sembrava ringiovanito di dieci anni e conversava gridando,
per sopraffare il festoso chiasso circostante, col vecchio pensoso,
il quale approvava calorosamente, mentre i due sorbivano gelati e, di
quando in quando, pareva s'abbracciassero, nella foga della
discussione. E, mentre nella stanza svolazzavano, ormai pacificati,
innocenti cribbi, come notturne farfalle dalle ali silenziose,
sul balcone Silvia e Goffredo continuavano a bisbigliare parole
affettuose e nel cielo chiaro della sera s'accendevano le prime
stelle.
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