Era un «paese della
mente», era un «gigantesco teatro», era l’America. Lo andavano
cercando, attraverso la letteratura, durante gli anni del fascismo,
giovani scrittori e intellettuali che in America non erano mai stati,
ma che ritenevano quella terra «pensosa e barbarica, felice e
rissosa, dissoluta, feconda, greve di tutto il passato del mondo, e
insieme giovane, innocente», come scrisse Cesare Pavese. Un
«gigantesco teatro» dove dimenticare le meschine e casalinghe
dispute pseudoculturali fra «Strapaese» e «Stracittà».
Siamo negli ultimi Anni
Trenta, in Francia Gide e Malraux scoprono Steinbeck, Faulkner;
Gertrude Stein ospita nel suo salotto gli americani transfughi e
inquieti. In Italia «Solaria», la «Ronda», «Letteratura» e
«Omnibus», si accorgono di questa «terra promessa», di questo
«mito»: Carlo Linati, Elio Vittorini, ne sono gli alfieri, e, anche
se in modo più misurato, Emilio Cecchi che nel 35 ha pubblicato
Scrittori inglesi e americani e più tardi, nel ’40, America
amara.
L’editoria italiana si
era accorta di quel paese e di quegli scrittori, ma a darne
un’immagine liberatoria ed esemplare furono Valentino Bompiani ed
Elio Vittorini, con l’ormai celebre antologia Americana, che
oggi viene ristampata nei «Tascabili Bompiani», con un saggio di
Claudio Gorlier, note critiche di Giuseppe Zaccaria e, in appendice,
l’introduzione di Emilio Cecchi del 1942.
Elio Vittorini verso la
fine degli Anni Trenta collaborava con Bompiani: l’editore gli
mandava libri, lui faceva schede, consigliava, traduceva: nel 39 era
uscito Pian della Tortilla di Steinbeck, nel 40 Piccolo
campo di Caldwell. Bompiani gli diceva di non perder tempo a
cercar libri di «successo», voleva soprattutto libri «di qualità»,
che durassero negli anni. In casa editrice, Vittorini ci entrò per
curare una serie di letteratura universale, la serie «Corona». E da
quella collezione in seguito nacque la «Pantheon», che avrebbe
dovuto raccogliere antologie di letteratura dedicate a ogni paese. In
quella sede uscì Germanica. Il prossimo appuntamento sarebbe
stato, decisero Bompiani e Vittorini, Americana.
E fu allora che
iniziarono i guai. Vittorini si buttò al progetto con un «vitalismo
illuministico», come l’ha assai intelligentemente definito Claudio
Gorlier. Incominciò a cercar romanzi americani, a stendere quel
mosaico di pagine con il quale avrebbe costruito un’allegoria
dell’America, fatta in modo tale, che, scrisse «chi l’accetterà
sarà americano in tale senso, puro, nuovo... sarà americano al
cento per cento».
Nei suoi desideri c era
quello di scrivere un cappello per ogni autore scelto, di
accompagnare i testi con un’antologia fotografica che per immagini
raccontasse il paese e i suoi abitanti. I cappelli avrebbero
costituito una sorta di «breve storia della letteratura americana».
Ne parlava in giro, raccoglieva pareri, indicazioni. Pensò che i
traduttori dovevano essere a loro volta scrittori, solo così
sarebbero venuti fuori tutti gli umori di quella narrativa
d’oltreoceano. Chiese aiuto ad Alberto Moravia, a Eugenio Montale,
a Guido Piovene, a Cesare Pavese e ad altri. Lo ricevette. Montale
gli consigliò, per Herman Melville, il Billy Budd. E lo
tradusse su un’edizione, che anni dopo scoprì non «del tutto
ineccepibile». Facevano come potevano, con i dizionari che avevano,
«quasi disarmati — dirà Montale — di fronte allo slang».
Il progetto ormai era
avviato: da Washington Irving all’italo-americano John Fante
(vivente), passando per i Poe, James, Fitzgerald, Faulkner, la mappa
del «gigantesco teatro» stava componendosi, sarebbe arrivata a quel
pubblico che voleva essere «americano al cento per cento».
Ma fecero prima ad uscire
due romanzi italiani, figli di quella visione americana di «felicità»
e «barbarie»: la ricerca della «terra promessa» in Conversazione
in Sicilia di Elio Vittorini e la rivisitazione in chiave di
primitivo e selvaggio delle Langhe in Paesi tuoi di Pavese.
Cos’era accaduto ad
Americana? Il libro, già in bozze, nel ’41 non riusciva ad
avere il «visto si stampi» dal ministero della Cultura popolare.
Alessandro Pavolini, allora responsabile, non riteneva il caso di
fare una cortesia all’America. Scriveva a Bompiani: «L’opera è
assai pregevole per il criterio critico della scelta e
dell’informazione e per tutta la presentazione. Resto però del mio
parere, e cioè che l’uscita — in questo momento —
dell’antologia americana sia inopportuna. Gli Stati Uniti sono
potenzialmente nostri nemici...».
Vittorini e Bompiani
cercarono in tutti i modi di ottenere il permesso d’uscita. «Si
capisce — ha scritto Claudio Gorlier — allora perché Americana
provocasse le reazioni della censura del regime sia per ciò che
rappresentava di alternativo, di controcultura, sia perché recava le
tracce di una ricerca d’identità detonata, magari in modo ambiguo
e scomposto, all’interno del fascismo e del suo apparente consenso,
ponendo a nudo il vuoto della sottocultura fascista».
Nel ’42 una
«scappatoia» venne trovata. Emilio Cecchi avrebbe dovuto stendere
una nuova prefazione, si sarebbero tolte introduzioni, note,
fotografie di Elio Vittorini. L’avallo di un accademico d’Italia,
premio Mussolini, come Cecchi, avrebbe chiuso gli occhi alla censura.
Cecchi, che — non dimentichiamolo — era stato tra i firmatari del
manifesto antifascista di Croce, accettò. E gli fu poi rimproverato.
Eppure fu l’unico modo, Vittorini e Bompiani d’accordo, perché
nel ’42 Americana uscisse in libreria.
Certo l’introduzione di
Emilio Cecchi non aveva gli «astratti furori» di quella di
Vittorini. Ma Cecchi in America c’era stato, non mitizza, coglie
novità e limiti dell’operazione, distingue autori che gli
piacciono, come Henry James, da scrittori d’occasione come John
Fante, sottolinea i pericoli dei «copisti», dei sottoprodotti di
Hemingway, sottovalutando scrittori come Bierce e Crane, ma con
l’onestà critica e intellettuale di uno studioso che conosce
l’America di cui sta parlando.
Quando uscì Americana
fece comunque grande impressione. Umberto Eco poco tempo fa ha
scritto: «Americana era un libro multimediale... circolò e
produsse una nuova cultura. Anche senza le pagine di Vittorini, la
stessa struttura dell’antologia agì come un discorso. Il montaggio
era il messaggio. Lo stesso modo, criticabilissimo, in cui gli
americani erano tradotti, produsse un nuovo senso della lingua». E
Beniamino Placido, che allora aveva dodici anni, ma che vedeva gli
avvocati del suo paese leggere Piccolo campo o Furore,
ricorda la testimonianza di un deputato comunista che aveva letto,
allora, gli autori americani. Gli disse: «Lei si ricorda come
comincia Furore di Steinbeck? “Un camion si fermò, e dal
tubo di scappamento uscì un fumo azzurrino”. Ebbene, lei deve
sapere che in quegli anni, nella letteratura italiana, non c’erano
mai camion. Se c’erano non si parlava mai del loro tubo di
scappamento, non lo si faceva mai per dire che emetteva fumo. Non
c’era fumo nella letteratura italiana sotto il fascismo». E
Bompiani, anni dopo, parlando del messaggio cosi esplosivo di
quell’antologia disse che era dovuta a «la minuzia, la semplicità,
la quotidianità, totalmente assenti nel frammentismo e
nell’ermetismo ai quali si erano ridotte la letteratura e la poesia
italiana».
“Tuttolibri La Stampa”,
24 novembre 1984
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