Il testo che segue è
tratto da un racconto di Camilleri, Il terremoto del '38,
ma è una storia chiusa in se, un racconto dentro il racconto
collocato all'inizio del narrare come esempio di catastrofe
determinata dall'azione dell'uomo e perciò diversa dalle catastrofi
naturali come appunto il terremoto.
Vigàta,
il luogo dove i fatti si svolgono, è – come è noto – una
trasfigurazione della città natale di Camilleri, quella Porto
Empedocle che nel corso del Novecento sempre più si svincolava dal
ruolo satellite di “marina” di Girgenti (oggi Agrigento, in
Camilleri Montelusa). Il tono scelto dallo scrittore è quello
dell'affabulatore antico che colorisce il ricordo con l'attenzione ai
particolari e alle relazioni e mostra dalle cose la distanza di chi
ne ha viste e sentite tante: può in conseguenza permettersi di
corredare la narrazione di allusioni e di estrarne considerazioni
didascaliche. Il racconto può pertanto considerarsi anche un
apologo, l'exemplum di
un certo tipo di potere presente in molti tempi, molti luoghi, molte
forme, del quale il fascismo non è che una pittoresca incarnazione.
(S.L.L.)
La spiaggia di Porto Empodocle all'inizio del Novecento (foto Agatocle Politi) |
La catastrofi provocata
dall’omo che cchiù a longo vinni arricordata dai vigatisi fu il
primo granni bummardamento fatto dai miricani a mità del misi
d’austo del 1942.
Veramenti veramenti non
si dovrebbi acchiamare catastrofi in quanto le bumme miricane
affunnaro ’na varcuzza, ammazzaro a un cani randagio, ficiro
quattro pirtusa nel basolato della banchina portuali e abbatterò la
facciata di un villino. Nisciun morto, nisciun firuto. Se i vigatisi
si ficiro pirsuasi che era stata ’na catastrofi non fu dunqui per i
danni matiriali. E allura pirchì? Forsi è beni principiari dal
comincio.
All’ebica era Fidirali
di Montelusa, vali a diri la massima carrica politica, un
quarantacinchino che di nomi faciva Raniero Mazzacan, squatrista e
marcia su Roma, filetto rosso supra alla manica della divisa che
viniva a essiri il simbolo «del sangue versato e fatto versare per
la causa della Rivoluzione fascista».
Alla luntana, aviva un
minimo di simiglianza con Mussolini, e lui faciva di tutto per
aumintarla, però gli ammancavano la masciddra quatrata e la taliata
volitiva.
’N compenso, tutti e dù
avivano teste accussì lucite che parivano palle di bigliardo.
Era un fissato contro
l’accaparratori di generi limintari, li chiamava «sciacalli» e
annava proclamanno a dritta e a manca che dovivano essiri mittuti al
muro e fucilati. Firriava per tutti i paìsi della provincia
proclamanno che gli ’nglisi, essenno il popolo dei cinque pasti,
erano distinati a perdiri la guerra contro all’italiani che di
pasti ne facivano sì e no dù al jorno, e per junta scarsi, pirchì
non erano appisantiti dal troppo mangiari.
«É lo spirito che
conta, non lo stomaco!» concludiva.
E per dari l’esempio,
quanno stava nella sò casa e la jornata era bona, mangiava con la
mogliere e i tri figli con la tavola conzata ’n tirrazzo, ’n modo
che i vicini di casa potivano testimoniari quant’erano spartani i
pasti che faciva. Tanticchia di pasta o di riso, un secunno di pisci
(carni sulo ’na vota a simana), dù patatuzze, un frutto di
stascioni e ti saluto e sono. A sira, ’na ministrina, ’na
striscia di cacio e bonanotti.
Per i misi di stati si
era affittato un villino a dù piani a Vigàta, propio a ripa di
mari, e ci si trasfiriva, pirchì a lui piacivano le longhe rimate ’n
sandolino, macari di notti.
Tra parentesi, i fratelli
Pippino e Giurlanno Garlazzo se la scapolaro per un pilo ’na notti
che stavano tornanno a ripa con la varca carrica di sacchi di farina
da rivinniri al mercato nero.
C’era ’na gran luna
che faciva squasi jorno e, mentri che rimavano, Pippino dissi a voci
vascia a sò frati:
«Fermo! Talia ddrà!».
Giurlanno taliò. Un faro
a pilo d’acqua corriva viloci verso di loro, in rotta di
collisioni.
«Minchia! La Finanza!
Scappamo!» fici Giurlanno.
E si misiro a rimari alla
dispirata ’n senso contrario. Po’, quanno si sintero al sicuro,
mentri il faro s’addiriggiva oramà verso la ripa, Pippino pigliò
il binocolo.
Non era un faro, era il
riflesso della luci della luna supra alla testa a palla di bigliardo
del Fidirali.
Il bummardamento miricano
capitò alle deci del matino e siccome che era ’na jornata di
grannissimo càvudo, manco si potiva respirari, la pilaja era
affollata di bagnanti.
Arrivaro ’sti tri
rioplani e, ’n mezzo al foco della contraerea, scarricarono alla
sanfasò ’na trentina di bumme supra al porto.
Uno dei tri rioplani
però, mentri si nni tornava verso il mari aperto da indove era
vinuto, sganciò l’urtima bumma che anno a pigliari propio il
villino affittato dal Fidirali.
Non ammazzò a nisciuno,
pirchì quel jorno tutti i Mazzacan si nni erano acchianati a
Montelusa, e manco abbatti il fabbricato. La bumma si portò via la
facciata intera del villino, sicché le càmmare parsero di colpo
essiri addivintate pricise ’ntifiche a scinografie di teatro. A
pianoterra c’era la scinografia del saloni d’arriciviri, della
cucina e della càmmara di mangiari, al primo piano le scinografie
delle càmmare di dormiri, al secunno piano le scinografie dello
studdio del Fidirali, di ’na càmmara per l’ospiti e di ’n’autra
càmmara il cui uso i bagnanti, che passato lo scanto erano corruti a
vidiri, in prima non accapero.
Quella càmmara
arricordava in qualichi modo il magnifico nigozio di generi limintari
che don Savatori Sghembri aviva a Vigàta prima della guerra, quanno
non ammancava nenti.
Decine e decine di
salami, prosciutti e mortatelle pinnuliavano dal soffitto che pariva
’na foresta, supra a un ripiano di ligno ci stavano una supra
all’autra forme di cacio a tinchitè, supra a ’n autro ripiano
’nveci ci stavano chilate e chilate di pasta di tutti i tipi,
spachetti, cannelloni, bucatini, capilli d’angilo, tutte 'ncartate
di blu e di giallo, e po’ sacchi di farina, di favi, di riso...
La genti ristò
’mparpagliata a taliare. Non si capacitava di quello che vidiva.
Po’ ’na voci gridò:
«Robba di mangiari è!».
Turiddru Nicotra, un
vintino che non aviva potuto fari il militari pirchì era orbo da un
occhio, s’arrampicò lesto supra alla muntagneddra di macerie che
arrivavano al primo piano e da lì arringò i bagnanti:
«’Sto grannissimo
cornuto del Fidirali! Taliate quanta robba si tiniva ammucciata! E se
la pigliava coll’accaparratori, lui, che era ’u primo
accaparratore! Davanti a nuautri mangiava pani e cicoria e po’,
dintra a la sò casa, si inchiva la panza!».
Non s’arriniscì ad
accapiri come fici, ma, finuto di parlari, s’arrampicò come ’na
scimia fino al secunno piano dritto nella càmmara stipata di cose da
mangiari e accomenzò a ghittari ai bagnanti sottostanti mortatelle,
caci, pasta, farina, fino a quanno la càmmara risto completamenti
sbacantata.
Nel doppopranzo un
ducento pirsone s’arradunaro in piazza e si misiro a fari voci
contro il fascio e contro a Mussolini. La polizia e le cammise nìvure
stimaro che era meglio non farisi vidiri.
’N sirata, vinni dato
foco alla sedi del partito fascista di Vigàta.
Il jorno appresso si
vinni a sapiri che il Fidirali Mazzacan era stato chiamato a Roma e
non tornò cchiù.
Il novo Fidirali arrivò
tri misi appresso, ma non ebbi mai il coraggio di viniri a Vigàta.
Ecco, quel bummardamento
fu una catastrofi per il fascismo locali.
Da Le vichinghe
volanti e alte storie d'amore a Vigàta,
Sellerio, 2015
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