New York, South Bronx,
Forest Houses, 1010 Tinton Avenue, tra la 163rd e la 165th. Tanti
grattacieli squadrati di mattoni rossi, vecchi e perciò tozzi, non
più di quindici piani, come tutte le abitazioni popolari della città
dove resistono ancora un milione di fitti bloccati e perciò sono
abitati da poveri ma privilegiati. Qui quasi tutti neri. Il quartiere
è molto periferico ma è verde. E nel bel mezzo del piccolo parco
fra le case c’è nientedimeno che un monumento a Gramsci. Sì,
proprio Antonio, il nostro. Si tratta di una scultura e di tre
piccoli edifici di legno in cui ha sede una sorta di circolo
politico-culturale – molto recenti, del 2013 – costruiti da
Thomas Hirschhorn.
Ho traversato mezza New
York per trovare il luogo, di cui nessuno dei miei amici del Left
Forum cui nei giorni scorsi (come da quasi trent’anni) sono stata
ospite sapeva nemmeno l’esistenza. Ma ho insistito, perché ne
avevo vista tempo fa l’immagine sul “New York Times”,
accompagnata da un lungo articolo un po’ scettico che spiegava la
genesi: un artista assai conosciuto che aveva deciso di erigere
monumenti simili in quartieri popolari di altre città, ciascuno
dedicato a un filosofo da lui ritenuto molto importante: oltre
Gramsci anche Baruch Spinoza, George Bataille, Gilles Deleuze.
Qualcuno, non ricordo in quale paese del mondo, mi aveva confermato
che la statua esisteva davvero, e che attorno alla costruzione si era
creato un centro di iniziativa ispirato a Gramsci stesso.
IL MILITANTE
“SMARRITO”
È inutile che dia altri
dettagli, perché, finalmente arrivata sul luogo, dopo molto vagare
fra alberi e edifici, ho dovuto rassegnarmi: il monumento è stato
recentemente rimosso. Non per ragioni politiche, semplicemente perché
l’esposizione al maltempo l’aveva deteriorato e nessuno se ne
prendeva più cura. Come potete immaginare, ci sono rimasta molto
male.
La sorte di Antonio
Gramsci in America non è comunque così triste come questa del suo
monumento. Nelle accademie, anzi, c’è da diversi anni una
incoraggiante e intelligente ricerca sul «pensatore» italiano.
«Pensatore», lo chiamano, come del resto in molti all’estero:
pochissimi sembrano sapere che Gramsci non è stato solo un grande
intellettuale ma anche un militante politico, e anzi il leader del
più grosso partito comunista d’occidente. E così si capisce
perché possa capitare di sentirlo citato nelle università,
praticamente mai nei panels del Left Forum, affollati di
attivisti di base; o in raduni analoghi. E come mai nei tanti
banchetti allestiti per l’occasione, dove viene offerta tutta la
possibile mercanzia dell’editoria marxista, i suoi libri siano una
rarità.
Eppure il Forum, che fino
a non molti anni fa si chiamava Socialist Scholars Conference,
ed era dunque promossa proprio dai docenti di sinistra delle
università della west e della east coast, di
intellettuali partecipanti ne ha sempre avuti, e continua ad averne,
moltissimi, nonostante i più celebri – Sweezy, Baran, Mgdoff,
Singer e molti altri – siano ormai deceduti. Ma anche quando
c’erano loro fra gli attivi partecipanti di questa assise annuale –
articolata in centinaia di workshop, cui si affluisce pagando
non pochi dollari – di Gramsci si è sempre fatto a meno. Perché
la sinistra-sinistra americana è fatta così: salvo i vecchi – ce
ne sono parecchi – che indossano ancora il basco in onore della
guerra civile spagnola e continuano a litigare su Trotsky e Rosa –
per i militanti delle tante combattive aggregazioni comunitarie, la
politica è una cosa, la cultura un’altra.
Ho fatto questa lunga
premessa per spiegare perché in questi tre affrettati giorni
trascorsi a New York, nel pieno di una campagna elettorale animata da
uno scontro di massa senza precedenti, oltre a non aver trovato il
monumento di Gramsci non ho trovato neppure una seria riflessione
«gramsciana» sul fenomeno Bernie Sanders che, se del nostro
«pensatore» si facesse buon uso, sarebbe apparsa indispensabile
premessa di ogni dibattito. Sanders, per altro, qui è stato sempre
di casa e qui infatti l’ho incontrato io stessa quando ancora era
sindaco di Burlington, la cittadina dello sperduto Vermont, e poi
senatore socialista di quello stato, alieno al resto del paese
quanto, e anzi di più, la provincia di Bolzano rispetto alla
Calabria.
ELEZIONI NEI
WORKSHOP
Di primarie se ne è
parlato in molti workshop, per carità, ma più per misurare
le distanze di ciascuno dallo sfidante di Hillary Clinton (c’era
persino qualche cartello che lo dichiarava troppo poco di sinistra
per l’America) o per chiedersi cosa fare ove in pista contro Trump
dovesse rimanere Clinton; o, ancora, cosa in questo caso si proporrà
di fare Bernie. Il timore è che possa esser risucchiato
dall’establishment, che potrebbe dargli qualche contentino
inserendolo nella squadra del prossimo presidente, sì da ottenere
per la candidata democratica i voti per niente sicuri di chi fino ad
ora si batte per il candidato socialista.
È per questo, del resto,
che molti fra i più autorevoli commentatori insistono nel dire che
forse Sanders avrebbe più chances di battere Trump di quante
ne avrebbe Clinton: porterebbe alle urne un popolo di teenagers
che altrimenti a votare neppure ci andrebbe. Gli ultimi sondaggi
confermano: Sanders supera Trump di 10,8 punti, mentre Clinton è
testa a testa col rivale repubblicano. E poi è decisamente più
simpatico: lui piace al 41% degli interrogati da un sondaggio Cbs-New
York Times, mentre Clinton solo al 31 e Trump al 26 %.
ORIENTAMENTI
GIOVANILI
L’interrogativo più
importante, tuttavia, che pone questa mobilitazione così massiccia e
così radicalizzata, che le primarie hanno suscitato in un paese dove
lo scontro elettorale non è mai stato molto partecipato, riguarda
capire chi sono questi giovani, da dove vengono, quali esperienze
hanno vissuto, quali letture li hanno orientati, quale sia la loro
visione del mondo. E, ancora: rappresentano un episodio o un
mutamento duraturo? Al di là delle sorti di Bernie questo è il vero
quesito: reggerà, e in quali forme, anche dopo il voto, il movimento
che sta animando la campagna elettorale , o verrà riassorbito come è
accaduto otto anni fa con la mobilitazione, sia pure infinitamente
minore e comunque assai meno radicalizzata, che si ebbe per Obama?
I più accorti si rendono
conto che la cosa più importante da fare sia proprio preservare e
far crescere questo patrimonio, non disperderlo. È quello,
innanzitutto, di cui dovrà occuparsi in futuro Bernie Sanders. E
loro stessi, gruppi di base della sinistra radicale, superando il
dilemma che da sempre li affligge: operare dall’interno del Partito
democratico finendo per essere cooptati dalla sua macchina di potere,
oppure restarne fuori rischiando l’invisibilità e l’irrilevanza.
Il merito di Sanders è,
in realtà, stato proprio quello di non essersi fatto schiacciare da
un sistema politico così rigidamente bipartitico da rendere
impensabile la creazione di una terza forza politica, sempre fallita,
sia a destra che a sinistra. Il candidato che tutti definiscono
socialista ha, infatti, scelto di correre nelle primarie – al di
fuori delle quali non sarebbe esistito – ma è rimasto lontanissimo
e indipendente dalle potenti strutture del partito.
Proprio per questo ha
ottenuto consensi impensabili fra i giovani e persino fra le donne
(fra quelle al di sotto dei trent’anni l’80% nello Yova e l’82%
nel New Hampshire; 73 % fra quelle di meno di quarantacinque anni nel
Nevada, tanto per fare un esempio) fra cui si anima un crescente
numero di gruppi femministi anti Hillary Cliton, proprio perché
simbolo del detestato ideale emancipatorio dell’establishment:
la donna in carriera.
Sanders ha potuto fare
oggi ciò che altri nel passato non hanno potuto perché in questi
anni il dilemma Partito democratico/invisibilità ha perduto peso.
Qualcosa di profondo si è spezzato nel sistema americano, come del
resto anche in Europa: il tradizionale modello di democrazia
rappresentativa non funziona più, e tutti se ne rendono conto. I più
giovani vogliono prendere la parola, direttamente. Se a questo si
aggiunge l’inuguaglianza senza precedenti prodotta dal sistema, si
capisce perchè la rivolta contro l’establishment sia a tal punto
dilagata (esprimendosi a destra così come a sinistra).
Giustamente, mi diceva
Angela Davis in occasione del suo recente viaggio a Roma, il
movimento Occupy è sembrato svanire perché le piazze stracolme del
2011 si sono svuotate. Ma quella presa di coscienza, quella scossa,
hanno continuato a smuovere lo stagno. Questo – aggiungeva Angela –
è stato in fondo il merito di Obama: aver lasciato che quel
movimento si estendesse, senza reprimerlo come avrebbe probabilmente
fatto qualsiasi altro presidente. Meno appariscente, Occupy ha
infatti seminato, producendo una miriade di movimenti di lotta che
coinvolgono il frantumato mondo del lavoro precario che esiste anche
qui: dei lavoratori dei fast food per un minimo di paga di
quindici dollari l’ora; degli studenti – un milione – che
lavorano nei servizi delle università per pagarsi gli studi e
reclamano il diritto ad avere un sindacato e persino quello che noi
chiamiamo l’art.18, per loro la giusta causa nel licenziamento;
anche loro, come da noi, contro l’ulteriore salto della
globalizzazione selvaggia, i Trattati su commercio e investimenti
nell’area atlantica e del Pacifico; e così via.
SOGGETTI POLITICI
DA COSTRUIRE
Predire cosa accadrà è
difficile anche per chi in America ci sta e ne sa ben più di me.
Certo, il rigido e antidemocratico sistema elettorale del Partito
democratico, che affida le sorti delle primarie ben più che
all’elettorato al disciplinato drappello dei c.d «superdelegati»
alla Convention, 540 dei quali già si sono pronunciati per Hillary
Clinton contro solo 42 per Bernie, dicono che i giochi sono già
fatti; e che, anzi, sono stati decisi già prima di cominciare la
gara. Ma vincere e diventare presidente degli Stati uniti non è il
solo obiettivo di Sanders (anche con in mano la Casa Bianca che
potrebbe del resto mai fare se la società americana resta quella che
è?).
L’obiettivo reale è la
costruzione di un diverso soggetto politico collettivo, che nel lungo
periodo potrebbe davvero cambiar e le cose. Se ci riuscirà lo
potremo verificare già a metà giugno quando, a Chicago, molti dei
gruppi «pro Sanders» si riuniranno in quello che hanno chiamato
«summit del popolo». In questa occasione, si potrà valutare meglio
la consistenza del nuovo movimento e la possibilità che emerga dalla
nuova generazione di militanti di sinistra una leadership credibile.
È comunque già un fatto
che quanto stia accadendo negli Stati Uniti – per via della
mobilitazione di quella che è stata chiamata «l’ala sinistra del
possibile» – sembra essere una sinistra che fino a ieri non
avremmo ritenuto possibile nemmeno sognare.
“il manifesto”, 1
giugno 2016
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