L'articolo
che segue fu pubblicato nel 1986, mentre nell'aula-bunker per
l'occasione apprestata si svolgeva il più celebre “maxiprocesso”
a Cosa Nostra e a tanti suoi affiliati. (S.L.L.)
Manzoni lesse in spagnolo
il Don Chisciotte; e quando si imbatteva in parole o
espressioni ancor vive nel dialetto milanese, diligentemente le
annotava. Ne fece poi un elenco, che diede a degli amici: e da loro
ci è stato conservato. Nell'elenco è la parola "mafia",
non registrata dai dizionari della lingua spagnola e finora - per me
- introvabile nel Don Chisciotte. L'ho cercata, nell'edizione
Aguilar delle opere di Cervantes, in tutti i luoghi in cui pensavo
potesse trovarsi; ho chiesto soccorso agli amici che molto meglio di
me conoscono lo spagnolo e Cervantes. Inutilmente. Non mi resta che
rileggere, dopo circa trent'anni, il libro dal principio alla fine; e
prevedo con fatica, se il diletto di rileggerlo sarà insidiato e
guastato dalla caccia a quella sola parola.
Mi interessa ritrovarla,
quella parola, non solo per liberarmi da un'ossessione, piccola
quanto si vuole ma ossessione, ma anche per trovarvi rispondenza a un
passo di Borges che mi è, per così dire, saltato agli occhi
trovandolo isolato nel Borges A/Z recentemente pubblicato da
Ricci: una specie di dizionario borgesiano curato da Gianni
Guadalupi. Alla voce "argentino", che Guadalupi trae
dall'Evaristo Carriego, Borges dice di aver sempre pensato che
l'Argentina fosse irrimediabilmente diversa dalla Spagna; ma ad un
certo punto due righe del Don Chisciotte sono bastate a convincerlo
di essere in errore. Le due righe sono queste: "... che
nell'aldilà ciascuno se la veda col proprio peccato", ma in
questo mondo "non è bene che uomini d'onore si facciano giudici
di altri uomini dai quali non hanno avuto alcun danno".
Credevo anch'io, come
Borges, che nella mafia, nel "sentire mafioso",
nell'indifferenza della maggior parte dei siciliani di fronte alla
mafia, non ci fosse nulla di spagnolo: ma questo passo di Borges, con
dentro le due righe di Cervantes, mi ha convinto che sbagliavo. E poi
la parola, la finora introvata parola registrata dal Manzoni. Voglio
dire: quel che oggi, mentre si celebra il grande processo contro la
mafia, i non siciliani colgono di sgradevole e di condannabile nei
siciliani, ha questa antica radice: il non voler giudicare uomini da
cui credono di non aver ricevuto alcun danno.
Non tutti i siciliani, si
capisce: poiché la cultura - quella vera - in tanti è riuscita a
rimuovere questo sentimento e atteggiamento. Ed è comprensibile che
l'imbattervisi dia a un non siciliano impressione di connivenza, di
complicità: mentre semplicemente si tratta di un "modo
d'essere". E tanto più negativa impressione, questo sentimento
e atteggiamento, per il fatto che molti ne sostengono la validità
col dire che dalla mafia e dai mafiosi non hanno avuto alcun danno
diretto, personale; mentre certamente, inevitabilmente, tutti i
siciliani ne hanno avuto danno indiretto e di enorme proporzione.
È chiaro che non sto
rifugiandomi nella letteratura per cercare alibi, ma - come sempre -
per capire. Certo, ci sono altre ragioni che possono giustificare
l'indifferenza e lo scetticismo dei siciliani, dei palermitani
particolarmente, di fronte al grande processo: e non ultima quella
che i commerci continuano ad essere taglieggiati come prima, forse
peggio di prima. Ma, a chi sappia ben vedere il significato di questo
processo, non è ragione per conferirgli poca importanza. Il processo
è importante, e di effetti che si dispiegheranno nel tempo.
L'Espresso, 16 marzo 1986
in A futura memoria, 1989
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