Sì, mi commuovo sempre
quando rileggo quelle lapidi dettate da Piero Calamandrei. Sono gli
anni, sono gli anni, mi urla un diavoletto nell'orecchio. Certo mi
commuovo anche perché molti degli ammazzati, alcuni torturati, certi
compagni bravi, coraggiosi e generosi, mi sono passati vicini. Molto
vicini. Li ho visti mentre uscivano per le strade di Firenze,
sessanta anni fa, con il mitra in pugno o trascinando armi,
manifestini, l'Unità clandestina, piccola, piccola e stampata su
carta quasi trasparente. Li ho visti in piedi sulle macerie dei ponti
fatti saltare in aria dai nazisti, mentre sparavano e cercavano di
staccare i cavetti delle mine, di salvare l'acquedotto o di portare
via feriti e moribondi... Li ho visti mentre si abbracciavano con gli
altri che erano arrivati dalla montagna con i fazzoletti rossi al
collo e cercavano, sotto le raffiche dei tedeschi e dei fascisti di
traversare l'Arno per liberare il centro della città.
Una sola volta - non mi
sono mai sognato di raccontarlo - ho avuto il cuore di leggere, negli
anni '60, quel marmo murato fuori da Villa Triste, sulla via
Bolognese, dove gli aguzzini della banda Carità torturavano gli
antifascisti, i partigiani, gli uomini dei Gap. Ecco che cosa c'era e
c'è scritto: «Non più Villa Triste/ se in queste mura/ spiriti
innocenti e fraterni/ armati sol di coscienza/ in faccia a spie
torturatori carnefici/vollero/ per riscattare vergogna/ per
restituire dignità/ per non rivelare il compagno/ languire soffrire
morire/ non tradire».
L'altra, murata di fianco
a Palazzo Vecchio, mi emoziona di meno. Certo, è ormai parte
integrale della pietra serena e delle grandi mura dal bugnato rugoso.
Pare addirittura in quel punto da sempre. Dice: «Dall'11 agosto
1944/ non donata ma riconquistata/ a prezzo di rovine di torture di
sangue/ la libertà/ sola ministra di giustizia sociale/ per
insurrezione di popolo/ per vittoria degli eserciti alleati/ in
questo palazzo dei padri/ più alto sulle macerie dei ponti/ ha
ripreso stanza/ nei secoli».
Sì, le lapidi, quelle
lapidi della mia città, per me sono uomini. Sono il sorriso strano
del Baggiani, la seria riflessività del Tagliaferri, il coraggio di
Potente e di Anna Maria Enriques Agnoletti. E sono il fegato di
Sinigaglia e quel suo girare per le strade, tra fascisti e nazisti,
con Fanciullacci, per colpire al momento giusto. E sono ancora quel
comandare ed obbedire di Elio Chianesi che tutti chiamavano «il
babbo». Già, nella mia cantina, con la grande parete murata, le sue
due figlie e la moglie, vennero a nascondersi dopo la morte di lui,
massacrato dai fascisti. E passarono mesi, là sotto, insieme a
Marcella Millul, la ragazzina ebrea che avevamo accolto in casa, dopo
che i suoi genitori erano finiti in un campo di sterminio.
Attenzione. Attenzione a
credere che i ragazzini e le ragazzine di dieci e undici anni, non
abbiano memoria o non si accorgano di niente. Non è vero. Io ho
visto tutto e ricordo tutto.
Certo, quando c'è la
guerra, si cresce in fretta, molto in fretta. C'era la paura delle
bombe, i morti, la fame, e il tentare di aggrapparsi alla vita in
ogni modo e con qualunque mezzo. Ricordo che, all'ora di pranzo,
capitava spesso che noi ragazzini ci aiutassimo, l'un l'altro, a
salire sopra agli alberi del viale Donato Giannotti. Era solo per
cogliere certe palline nere che poi mangiavamo a chili, anche
convinti di essere fortunati.
Insomma, io che non
ricordo che cosa ho fatto ieri, nella mente e nel cuore ho tutto e
tutti di quei giorni. A volte, è come se guardassi brandelli di
qualche vecchio film in bianco e nero. Sono brandelli che, spesso, si
sovrappongono e sovrappongono ore, giorni e momenti diversi. Poi
arrivano altre facce, parole, personaggi, piccole azioni come il
mettere manifestini antifascisti nelle cassette delle lettere. Tutti
arrivano o vanno via. Oppure vengono sostituiti da immagini del
passeggiare con mio padre Donato e mamma Rina, con certe forbicine in
mano per fermarsi, ogni tanto, e tagliare, con un colpo secco, i cavi
telefonici dei comandi tedeschi e fascisti.
La nostra era una
famiglia «rossa» e antifascista da sempre. Mio padre era stato
condannato a sedici anni di galera perché comunista e, dunque, non
poteva lavorare durante il fascismo. E allora si dedicava a qualche
lavoro di manovalanza fatto «in nero», come si dice oggi e alle
lunghe chiacchierate con i suoi due figli. Spiegava che cosa era il
fascismo, perché avevamo preso in casa una ragazzina ebrea, perché
era finito in carcere e perché era necessario combattere per la
libertà e non mettersi da parte.
Sì, lo so, oggi può
sembrare tutto retorico, populista o demagogico. Ma non mi importa un
bel niente. Racconterò ugualmente quel che facemmo e quel che vidi
fare anche nei giorni in cui la nostra Firenze tornò libera.
A volte, quegli spezzoni
di film in bianco e nero che ricordano quei giorni di sessanta anni
fa, tragici, terribili, ma anche pieni dei gioia, sono persino
accompagnati da una specie di sottofondo sonoro con parole che tutti
conosciamo: «Fischia il vento, urla la bufera...». O da «Bella
ciao, ciao...». Poi c'era l'altra canzone che non ricordo più ma
che diceva qualcosa come «... Sventolerai lassù, sulle macerie di
un mondo che fu... ». E il mondo che fu erano, ovviamente, il
fascismo, l'occupazione nazista, le persecuzioni, le fucilazioni, i
massacri, la guerra, i bombardamenti.
Quel 1944, fu davvero
terribile per Firenze. Il 10 giugno, venne sospesa l'erogazione del
gas, il 14, i giornali, spiegarono che era necessario fare provviste
di acqua. Qualche macelleria, vendeva ancora frattaglie a prezzo
calmierato, per non più di cento grammi al mese e c'erano file
immense di fiorentini affamati e disperati. Sotto i bombardamenti
alleati, intanto, era già crollato il Teatro Comunale ed erano stati
colpiti i nodi ferroviari e tante case. Molti che ne avevano avuto la
possibilità, avevano lasciato tutto sfollando in campagna. In ogni
angolo, le autorità fasciste avevano affisso manifesti con l'offerta
di soldi e di sale, per ogni antifascista, ebreo o partigiano
consegnato.
Gli uomini di Salò, in
città, erano Giotto Dainelli, Raffaele Manganiello, il torturatore
Mario Carità con la sua banda. Loro facevano il bello e il cattivo
tempo. Arrestavano, deportavano, uccidevano. Poi c'era Gentile, il
più autorevole e rappresentativo personaggio del fascismo
«repubblichino». È noto: sarà ucciso dai gappisti.
Anche i gruppi
antifascisti in città sono, comunque, ogni giorno più attivi. Ci
sono già i coraggiosi gappisti che operano su mandato del Comitato
toscano di liberazione nazionale che raccoglie tutti i partiti e
uomini che tutti conoscono e stimano. Sui colli e sui monti che
circondano Firenze, già si sono radunati coraggiosissime partigiani
raccolti in «bande». Ce ne sono a Monte Morello, in Roveta, sul
Monte Giovi, sul Pratomagno e a Secchieta. Sono giovanissimi
antifascisti, ex soldati e ufficiali, ex prigionieri inglesi,
francesi, americani, polacchi e persino russi. Si è formata la
divisione «Arno» che ha riunito le brigate garibaldine «Lanciotto»,
«Sinigaglia», «Caiani» e «Fanciullacci». Poi ci sono le brigate
socialiste, quelle di «Giustizia e Libertà», della Dc e del
Partito d'Azione.
Intanto, in centro e in
periferia, nazisti e fascisti continuano a rastrellare, arrestare e
torturare. Scoprono gli uomini di «radio Cora» che sono in contatto
con gli alleati. Sterminano tutti. Così muoiono il professor Enrico
Bocci, il fisico Carlo Ballario, l'ingegner Luigi Morandi, il
capitano pilota Italo Piccagli ed Enrico Bocci. I gappisti, nel
frattempo, hanno colpito e ucciso il colonnello Gino Gobbi, Giovanni
Gentile, appunto, e altri gerarchi. Hanno anche liberato dal carcere
diciassette donne e Bruno Fanciullacci, uno dei loro comandanti.
Fanciullacci, verrà di nuovo arrestato e torturato. Riuscirà a
gettarsi da una finestra di «Villa Triste» e morire. I fascisti,
durante una retata, la sera del 17 luglio, sparano sulla folla e
uccidono cinque persone tra le quali un vecchio ed un bambino. È,
ormai, una resa dei conti terribile.
n una giornata di orrore,
fascisti e nazisti, al Campo di Marte, avevano anche fucilato cinque
ragazzi che non si erano presentati alla chiamata di leva. Sul posto,
per vedere la strage, e «ammonire» erano stati fatti arrivare altri
soldati e la popolazione. Il Comitato di liberazione, con fascisti e
tedeschi ancora in città, ora lancia persino il «Prestito della
libertà» per finanziare le formazioni partigiane. In pochi giorni
vengono raccolti dieci milioni. E in casa mia? Da noi, le cantine
sono state chiuse e nascoste con un grande muro. Dietro, nello spazio
vuoto, la gente del palazzo ha infilato le ricchezze di allora:
materassi di lana, macchine da cucire, qualche gioiello. Ma le
cantine sono diventate, soprattutto, un grande deposito di armi per
le formazioni di montagna. Un paio di volte alla settimana, io vengo
vestito di tutto punto. Sotto la cintura dei pantaloni e nelle
mutande mi vengono cuciti messaggi e ordini di vario genere. Parto,
supero sempre tre o quattro posti di blocco nazisti (ai ragazzini
nessuno fa caso) e finisco in una casa verso le colline di Bagno a
Ripoli. Qui mi spogliano (che vergogna rimanere mezzo nudo in una
famiglia estranea) si prendono i messaggi e io posso tornare a casa.
Gino Baggiani,
imbianchino, con il suo triciclo e doppio fondo, porta poi, sotto
bidoni di vernice, fucili e bombe a mano agli uomini in montagna. Lo
ricordo come se fosse ieri. Era miope e diceva sempre, sorridendo al
nulla: «Non riuscirei a vedere un negro sulla neve». Ma partiva
ugualmente con il suo carico. Un giorno, guardando in strada da un
buco nel portone, vedo il Baggiani che spinge sui pedali. Ad un
tratto si sente un colpo di mortaio e il nostro compagno viene
colpito in pieno alle spalle. È così che il suo corpo dissolversi
nel nulla.
Sempre da quello
spioncino, una mattina guardo con terrore una lunga colonna di
rastrellati spinta dai nazisti verso Piazza Gavinana. In fondo,
spunta il mio maestro delle elementari che con la sua gamba «matta»,
si trascina con difficoltà. Pare calmo e tranquillo. Di lui non
saprò mai più nulla. Quella mattina, appoggiato allo spioncino,
piango disperato.
Tra il 29 luglio e il 4
agosto, gli abitanti dei Lungarni vengono fatti sgomberare. Poi, i
nazisti in ritirata, fanno saltare i cinque ponti della città. Sono
esplosioni immani che svegliano e terrorizzano tutti. Da noi,
finestre e porte si spalancano di colpo. I tedeschi hanno sbriciolato
,con la dinamite, anche il bellissimo Ponte a Santa Trinità, una
meraviglia nel cuore di mezzo mondo. È rimasto in piedi solo il
Ponte Vecchio, bloccato da montagne di macerie dai due lati perchè
sono stati fatti saltare anche Por Santa Maria e Borgo S. Jacopo.
Firenze, ora, è divisa
in due. Il comandante partigiano Enrico Fischer stende un filo
telefonico tra le due sponde dell'Arno, attraverso il corridoio
Vasariano. Poi, attraverso lo stesso corridoio, in mezzo a quadri
preziosi e busti fatti a pezzi, Fischer fa traversare anche tre
comandanti partigiani: Nello Niccoli, Carlo Ludovico Ragghianti e
Orazio Barbieri. Ed ecco la mattina dell'11 agosto, il giorno
dell'insurrezione. Alle 6,45, suona a distesa la «Martinella» di
Palazzo Vecchio. Tutti aspettavano, da tempo, il rumore
impressionante di quell'antico batacchio. Proprio come ai tempi delle
guerre per le libertà comunali. I combattenti, i partigiani, gli
antifascisti escono all'aperto. Vedo il mio babbo con il mitra in
pugno che corre fuori con i suoi, lungo il viale Donato Giannotti e
grida al prete della parrocchia, un vecchio amico antifascista:
«Padre, lei non sparerà, lo so. Allora porti via i morti». A lato
della strada sono già tanti. Poveracci, avevano cercato di
traversare per prendere acqua da bere ad una fontanella, ma le
mitragliatrici tedesche non avevano avuto pietà. Dal fondo del viale
si sentono canti e grida. È tutto un correre. A centinaia escono,
come poveri topi, dagli scantinati, dalle buche e dai rifugi
antiaerei. Sono bianchi in faccia, affamati, esausti. Tutti si
abbracciano, gridano e abbracciano i partigiani di Gracco (Angiolo
Gracci) con il fazzoletto rosso al collo, carichi di mitragliatrici e
fucili e con i nastri di proiettili a tracolla. Che emozione, che
felicità. Come si fa a spiegarlo, dopo più di mezzo secolo? Gracco
è alto e grosso, pieno di riccioli e sorride vagamente. Accanto a
lui, il ragazzino Settimelli si sente come un «tigrotto» vicino a
Sandokan.
Questi, penso per un
attimo, sono i «nostri», i compagni, gli amici, i liberatori che
abbiamo aspettato per mesi. Ora sono qui. È festa grande. Pochi
minuti dopo, su questa gente felice, i franchi tiratori fascisti
cominciano a sparare. Ci sono morti e feriti, ma ormai Gracco e i
suoi, sono con noi, in Piazza Gavinana. Ormai siamo liberi, liberi
per sempre. Qualcuno dice che il comandante partigiano «Potente» e
cioè Aligi Barducci, è morto durante la battaglia. È vero, è
vero. Lo amavano tutti perché era un ragazzo straordinario, una
leggenda. Si cammina lungo l'Arno, ovunque. Si riscopre la vita in
mezzo alla tragedia. Mio padre è tornato. Mia madre, la zia Valeria,
Marcella Millul, la ragazza ebrea sempre in cantina e un gruppetto di
anziani che non erano più usciti da casa, guardano, verso i
Lungarni, le montagne di macerie, i resti dei ponti e le distruzioni.
Giù, giù, fino alle Cascine. La città è ferita, offesa, umiliata,
fatta a pezzi. Muti e in un silenzio, nel gruppo, piangono tutti.
Senza singhiozzi. Poi, piegano la testa come per sfidare il dolore.
La mattina dopo, arrivano
i soldati alleati ed è di nuovo festa. Scopro, per la prima volta in
vita mia, seduto su una cassetta a due passi dalle cucine dei soldati
americani, che il pane bianco esiste davvero.
L'Unità, 9 Agosto 2004
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