Riprendo
dal sito della Biblioteca Gino Bianco una pagina curiosa, un articolo
di una eccellente giornalista (sarebbe poi diventata voce importante
del nuovo femminismo) che è insieme intervista, denuncia, cronaca:
intervista a una donna, una poetessa, testimone del proprio tempo tra
le più importanti; denuncia della condizione d'indigenza in cui
costei vive; cronaca di una iniziativa parlamentare. Un pezzo da
leggere, anche per meglio afferrare certe sgradevoli continuità
nella storia italiana. (S.L.L.)
La
prima volta che l’ho vista beveva uova, mi sembra, su un
palcoscenico romano: il pianista Federico Rezweski s’abbatteva, con
i gomiti ossuti, le nude braccia pallide, sulla tastiera di un
pianoforte: questo movimento, nella musica gestaltica, si chiama
closter, non è una novità, l’hanno inventato nel 1912. Una
ragazza americana - fibre sintetiche i suoi capelli ed il compatto
deterso tessuto della carnagione - emetteva, ed era una sorpresa,
brevi suoni cristallini, come sfaccettature di paradisiache vetrate,
a suggerire chiese medioevali, il blu degli affreschi, l’oro di
angeli trafitti dal primo sole. Un’altra volta, questa ragazza
l’avevo sentita cantare musica sacra all’oratorio del Gonfalone.
Ora l’avevano legata su una branda di metallo e la scagliavano, dal
palcoscenico, in platea. Ed Amelia Rosselli continuava a bere uova,
mi sembra. Nemmeno lei se lo ricorda bene. Sa che ha partecipato, con
i musicisti Daniele Paris, Silvano Bussotti ed altri, allo spettacolo
che io avevo visto, inserito nella Settimana della Musica
d’avanguardia.
Amelia
Rosselli scrive poesie: un suo libro, Variazioni belliche, è
stato già stampato, ed un altro uscirà, che avrà forse per titolo Serie Ospedaliera, ed un altro ancora a New York: Sleep.
Amelia aveva sette anni quando le hanno ucciso il padre, Carlo, a
Bagnole-sur-I’Orne. L’impressione, conoscendola di più, leggendo
le parole che scrive, è di una che dilapidi, con il pudore delle
persone civilmente educate, la sua giovinezza: altri, i fascisti del
servizio segreto del Sim, le hanno frantumato gli anni di bambina.
«Mi
ricordo di mio padre - dice - come di un uomo pieno di salute e di
calore. Non ho idea di come ce la facevamo, a Parigi, a tirare avanti
con i soldi: mio padre dirigeva un giornale antifascista, scriveva,
ma, a proposito, soltanto ora un editore italiano ha deciso di
pubblicare un suo libro "Socialismo liberale e scritti di
politica generale”. Ricordo che a Parigi mia madre era già malata.
Era incinta di me quando dovettero fuggire in Francia».
Ora
anche Amelia è malata, ha avuto una meningite da virus, ha speso
tutti i soldi che le erano rimasti della famiglia - la grande casa
fiorentina governata dalla nonna Amelia, dove si riunivano gli
antifascisti - per curarsi: per non guarire. «Cerco la durata delle
sicurezze, ma l’orologio, il numero - ha asfissiato la mia
bellezza... Lavarsi mangiare vestirsi senza fiducia. Grossolana
platea... Attivismo delle fanciulle in fiore». Le domando perché
non abita in Inghilterra, con i due fratelli; la madre, Marion, è
morta di cuore in un ospedale di Londra. («Madre dagli occhi
sconvolti – il blu papale delle tue gote, tende di Dio...»). «Io
sono venuta a Roma - dice Amelia - nel ‘50. Quel poco di radici che
ho, ormai le ho qui. Non posso andarmene». Ha scritto, in un’altra
poesia: «Le rondinelle giocavano molto dolcemente al disopra - dei
tetti di Trastevere ma io non vedevo altro che il Paradiso. Sopra del
Paradiso stavano le Sette Sante. Oltre il Paradiso - custodiva le sue
pecore una vecchia comare che non portava - altro attorno al collo
che le sue povere fibre...». Il diritto alle radici. Il primo
viaggio fatto per mare, da Le Havre a New York: «...Le pallide
ombre - di un meriggio lontano dove il sole caschi non quieto - ma
non turbato...». Andavano per mare con la nonna Amelia che guidava
la truppa di nuore, nipoti. La nonna d’origine austriaca, ebrea,
nata a Venezia: scriveva commedie in dialetto, Topino garzon di
bottega, Anima, El refolo, che furono per anni
- gli anni antichi di prima della guerra mondiale - nel repertorio
delle compagnie di giro. Le era morto un figlio, in guerra: e il
marito, musicista.
Nel
giugno del ‘37, l’assassinio di Carlo e di Nello. «La cosa più
importante che aveva - dice Amelia Rosselli - era una gran dignità
delicata negli occhi molto chiari... Celesti. Io ho i suoi occhi, il
colore voglio dire...». Amelia si rattrappisce, come difendendosi
dal confronto con la nonna: «bellissima da giovane, bellissima da
vecchia».
È
vestita a righe, con una maglia leggera per la stagione, gli occhi
nuvolosi acquatici nella faccia gonfiata, sgonfiata dalla malattia.
Ora c’è questo fatto, hanno proposto una pensione per lei, in
Senato: Ferruccio Parri, Eugenio Artom, Carlo Levi, Emilio Lussu,
Fernando Schiavetti, Giuliana Nenni, Umberto Terracini. Amelia ha il
ritaglio del giornale nella borsa. Chiedono seicentomila lire
all’anno. «...Carlo Rosselli profuse nella lotta antifascista
tutta la sua sostanza, la Repubblica italiana non farà che
assolvere, in forma assai modesta, il debito di riconoscenza che ha
verso una delle figure più luminose del nostro secondo
Risorgimento...». «Ma ora come vive?». «Affitto una stanza, ho
una rendita di cinquantamila lire al mese, quando stavo bene davo
lezioni di lingue». Amelia parla di sé come di un’altra persona
che non abbia soldi e, in più, malata. Dal patetismo della notizia
di cronaca - povertà, malattia - esce monda. Perché si chiama
Rosselli, e per il suo coraggio di perdersi–non perdersi in un
angolo di palcoscenico a bere uova, e la lealtà di scrivere
«Combiniamo menzogne - e fragili riviste d’avanguardia costose -
come le ambizioni che esse proteggono...»: e di nuovo il coraggio
contabile, contare le ore utili che ruba alla malattia, «una, due al
giorno, prima dell’emicrania», per scrivere.
La
mattina, in ospedale: «Un sole celeste una irrorazione di grumi di
cristallo - mattino presto, la luce non s’è spenta: quartieri
traboccanti - di senilità, la lavandaia con il cesto ma le sue
spalle - tremano... Rosso il malore, se la tua testa sonnecchia». E
il coraggio finale di strappare in quattro pezzi il foglio della
fatica, quando la poesia è brutta.
L’infanzia
americana, Max Ascoli che aiutava tutti i Rosselli, e il ritorno a
Firenze nel 1946: «Perché era logico tornare... No, non credo che
abbiano avuto delusioni, i grandi. Io avevo sedici anni. Non credo
che abbiano avuto delusioni subito. Ricominciarono i té di nonna
Amelia nella casa di Via Giusti... Mia madre, inglese, era naturale
che tornasse in Inghilterra. Per ragioni anche pratiche, la scuola
per noi, per esempio. Non avevamo soldi. Mio fratello Andrea di
giorno faceva il meccanico, la sera studiava ingegneria, ora è un
ingegnere bravissimo, ed un laburista arrabbiato. John aveva vinto
una borsa di studio a Cambridge, ha fatto il giornalista nel
Manchester Guardian, ora è professore di storia a Brighton. Una
scuola nuova, con un insegnamento di tipo sperimentale. Una volta
John mi ha detto: "Non tornerò mai in Italia” ed una delle
ragioni, credo, è che non potrebbe sopportare di chiamarsi Rosselli
in Italia, nemmeno di avere idee politiche in Italia. Ne abbiamo
parlato una volta sola... Io in vece ho provato. Sono stata iscritta
due anni al Pci, poi basta. Ma non vuol dire niente... ».
In
Inghilterra, Amelia ha studiato musica: è diplomata in violino e
composizione, teoria della composizione. «Nessuno degli strumenti
tradizionali può dare il suono puro. Il
suono incorruttibile dall’uomo. Si deve inventare altro: e la base
è lo strumento elettronico. Io ho cominciato a fare una cosa, uno
strumento...». Dopo l’endovenosa del mattino, prima
dell’emicrania.
“Il
Mondo”, 14 dicembre 1965
Nessun commento:
Posta un commento