Sorprende, delle
riconsiderazioni che si son fatte della lirica pasoliniana in
occasione dell’uscita di Bestemmia (la
raccolta dell'opera poetica, Garzanti, 1994), l’esigenza di
circoscrivere, definire, il concetto di poesia. Che cos’è la
poesia? è la domanda sottesa o esplicita negli articoli di Giovanni
Raboni, Franco Loi e chi altri. Fissati i paletti, si può procedere
a indicare se e quanto possa considerarsi poeta Pasolini. V’è, in
questa urgenza, la nostalgia di uno statuto, che infatti l’opera
poetica di Pasolini, al contrario degli «esercizi stilistici» della
neo-avanguardia, mette in crisi alla radice.
Non è un caso, credo,
che quasi tutte le recensioni a Bestemmia abbiano glissato
sulla prefazione di Giovanni Giudici: infatti nella sua asciuttezza
essa individua punti-chiave della poesia pasoliniana, tutti implicati
nel problema epocale della dissipazione del linguaggio poetico e
della sua impossibile ricodificazione. Poco importa, da questo punto
di vista, che si consideri più o meno «riuscita» l'infrazione
pasoliniana: è un ordine del ragionamento che fa parte di quel modo
statutario e formulare, cioè consolatorio, di intendere la poesia,
che Pasolini si sentì appunto costretto a distruggere.
Da questo ordine si può
discettare sul concetto di «classico», su cui sempre Pasolini, col
suo operare poetico, ha detto una parola definitiva. Egli avrebbe
disdegnato l'idea di diventare «classico», non per paura della
mummificazione, ma perché si sarebbe sentito totalmente incompreso
nella sua «modernità»: vale a dire nell’idea, mostrata
esistenzialmente quando non propugnata, secondo cui la storia aveva
passato l’ultimo cerchio di fuoco, oltre il quale doveva
considerarsi bruciata ogni riserva di memoria. In questo Dopostoria
nessuna «classicità» si sarebbe potuta ristabilire, se non in
forma parodistica.
Dall’immersione nuova
nella poesia pasoliniana di cui si fa esperienza leggendo Bestemmia,
che per la cura seria e amorevole di Graziella Chiarcossi e Walter
Siti la raccoglie integralmente (per la parte edita) e in molti
campioni significativi (per quella inedita), s’esce con un senso
rigenerante e insieme amarissimo del tempo: questo per negazione,
perché di continuo, dall’inizio alla fine, protagonista è
l’ossessione della circolarità stagionale, del tempo che ritorna e
dunque non si dà come conquista illuminista e progressista. La
poesia più alta è quella in cui questo sentimento si traduce più
direttamente in immagini, e queste immagini contendono la pagina a
quel «ricordo mormorato» che è la storia. Qui è il grande
manierista di Poesia in forma di rosa, di «Israele» o de
«L’alba meridionale», avvinto infatti in questa sua stagione
(1961-64) dalla lascivia e dal rovello figurativi di Pontormo e del
Rosso. L’infrazione linguistica a cui Pasolini si sente obbligato
dal riconoscimento di un impossibile «ritorno all’ordine» lo
affaccia sul vuoto metrico, e dalla tensione che ne deriva non può
che sortire esplosione immaginaria. In questo ribollire atomico
affiorano a tratti, come brandelli umani, i ricordi: che son le
tracce, o meglio le citazioni di una storia sognata, mitizzata, da
cui non poca luce s’è riflessa, come in un processo divinatorio,
sulla storia reale. Ricordi dell’elegia friulana o appenninica,
proiettata sulla Roma delle borgate, sono sommersi dal mare di nuove
laide urgenze. Se tutto appare ancora integro, come Argo dinanzi a
Pilade, che vuole liberarla dal passato con la ragione democratica e
progressiva, tutto è in realtà corrotto: col suo occhio «di
pesce», magico, simile a quello della sua Medea, Pasolini penetra
nella corruzione, attraverso le porte finte della storia.
È in Poesia in forma
di rosa che per la prima volta con chiarezza si delinea il motivo
di Petrolio: l’idea di una fuoriuscita dalla letteratura
verso un’esistenza corporea e palpitante, priva dell’esperienza
temporale, riflesso di un turbamento antropologico senza precedenti,
che è pur sempre un libro. Sarà un «delirio» enciclopedico, come
l’ha definito acutamente Fortini, a sottoporre la storia al
«giudizio finale», da cui non ci si può aspettare, tuttavia,
remissione alcuna. E di «volontà» enciclopedica scrive giusto
Giudici a proposito dell’opera poetica di Pasolini laddove la si
intenda, come si deve, quale intero. Ma se il «delirio» di Fortini
è «piccolo-borghese», la «volontà» di Giudici è «dantesca»:
però questa è una distinzione che nell’oltranza pasoliniana non
si comprende.
“la talpa libri – il
manifesto”, 10 febbraio 1994
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