11.8.16

Pasolini poeta “incivile”. Il discorso del corpo vivo (Gianni D'Elia)

Pasolini poeta continua ad essere oggetto di contrasti. Ora con Bestemmia. Tutte le poesie (a cura di Gabriella Chiarcossi e Walter Siti, Garzanti, 1994), e cioè con la raccolta di tutta la produzione poetica pasoliniana edita, più inediti e testi dispersi in riviste e altrove, i contrasti si riaccendono. Troppo contemporaneo per essere classico. Troppo vicino a noi per poter sopravvivere come poeta dopo di noi. O addirittura mediocre poeta, migliore regista e prosatore (ma saggista non romanziere), miglior critico che autore. Sarà proprio così?
Giovanni Giudici, nella bella prefazione ai due volumi recenti, ci parla di un vero e poliedrico poeta, attirato dall’«inespresso esistente», e cioè dal segreto mai rivelabile della realtà, dal suo mistero. Perché di Pasolini si può anche dire che è stato un grande poeta del secondo Novecento, nell’aver vissuto la lacerazione della poesia, sentita come carente alla vita.
La poesia è, per Pasolini, il discorso del corpo vivo. Il discorso, e non il corpo («E’ Parola, non Carne...», da un inedito del 1949). E’ in questa espulsione del corpo dalla scrittura che vive la parola poetica. È nella coscienza di questa espulsione che si riproduce la contraddizione insanabile del verso (che significa proprio spezzato, piegato). Dunque è altro che ci interessa, rileggendo la (a volte grandissima, altre meno) poesia di Pasolini, come del resto la poesia di Montale, Caproni.
Forse, chiusi nel mito del formalismo della critica letteraria, non possiamo capire l’apporto vero di un poeta alla sua cultura, alla lingua in cui si è insediato. Con Pasolini, come del resto in Francia con Artaud, dobbiamo usare un’altra chiave. Sono casi che hanno messo alla prova la lingua e l’unità del soggetto, e con essi la menzogna letteraria.
Vivendo con il corpo la cultura, certi autori del Novecento hanno dato la vera avanguardia del cuore, mentre la critica correva dietro a quelle ufficiali. Le fonti seccate hanno ricevuto nuova acqua dalla violenza espressionistica e dal manierismo vitalistico. Per Artaud, Genet, Pasolini, la «poesia» ha significato il discorso del corpo vivo. La polemica è stata contro uno statuto del sapere, che si organizza e si sviluppa invece come discorso sul corpo morto, come discorso del corpo morto.
Poche opere come quella di Pasolini, in questo secolo, portano dentro di sé l’istanza della ragione vitale, l’evento ossesso del corpo. Di questo fa esperienza il linguaggio pasoliniano. Attraverso i gradi della nostalgia delle origini (il friulano romanzo dell’apprendistato), della emulazione metrica (le raccolte italiane «incivili», più che civili, poiché sempre in dissidio e mai mediatorie), degli ultimi abbassamenti alla prosa, Pasolini corre tutti i rischi, ma li supera per evidenziare sempre meglio il suo fuoco. Non si tratta, come alcuni critici sostengono, di fallimento formale, ma di strategia consapevole di dissipazione. Perché si dovrebbe scrivere, se non per piacere o per necessità, perché non se ne può fare a meno? Non c’è altro giudizio che quello di sentire veri certi percorsi, e percorrerli fino in fondo.
Di che cosa è stato poeta Pasolini? Del corpo vivo che non si sa rassegnare all’estrema unzione di tutte le istituzioni, fino alle culturali e linguistiche, perché c’è qualcosa che fonda e precede la stessa cultura: il rapporto prelinguistico e mistico con le cose. «Gettare il proprio corpo nella lotta» sta allora per «Gettare il proprio corpo nel linguaggio». E’ questo il vero scandalo, la pietra di eresia che fa uscire dalla rilettura dell’opera di Pasolini, al di là della stucchevole rappresentazione di «poesia civile» che gran parte della critica le ha assegnato, con un convincimento opposto: si tratta della poesia meno «civile» che sia data nel Novecento, perché meno compromessa con qualsiasi mediazione mondana. La contraddizione corpo/Storia è insanabile, così come uno stile da allucinazione del reale («la realtà - l’irreale Qualcosa», dai Quadri friulani, altro che «realismo sociale»!). Si tratta di una poesia violentemente inclusiva dell’altro , che si sa per sempre cancellato, nell’atto stesso che lo si nomina: il corpo vivo.
Ed è proprio il discorso del corpo vivo (che si sa in perenne scissione con l’essere del corpo) ad essere nella poesia di Pasolini continuamente evocato. Nella cultura, il rapporto tra segno e cosa prende l’aspetto del rapporto tra segno e segno: quest’ultimo, esclude dal proprio sistema il corpo, la vita, la fisica tridimensionalità con cui lavora il cinema, tridimensionalità che lo stesso cinema, diventando scrittura, riduce. E’ l’ossessione della «semiologia della realtà», e non della semiologia del cinema: la realtà è il linguaggio (il figlio è la madre?), è il linguaggio più grande, «la mia vera passione».
Pasolini vive così aperto dentro la contraddizione corpo/Storia, fino a quando questa non lo sopprime e se lo porta via, lasciandoci un’opera ancora molto da capire e saggiare, grazie anche a questa ottima edizione ormai indispensabile del suo corpus poetico.


“la talpa libri – il manifesto”, 10 febbraio 1994

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