Thomas Mann nel 1947 |
Con vera gioia ho letto
un libro comprato tanti anni fa, sfogliato superficialmente e poi
rimasto lì, in attesa: Thomas Mann, Conversazioni
1909-1955, Editori
Riuniti 1986.
L'intitolazione del volume potrebbe però trarre in inganno. Non si
tratta di un libro ideato e costruito da Thomas Mann e solo in
piccola parte esso è composto da suoi scritti: è una raccolta
soprattutto di interviste allo scrittore tedesco (non sempre nella
forma della domanda e risposta, ma più spesso in quella libera del
“colloquio”), cui si aggiungono alcune cronache giornalistiche,
dichiarazioni alla stampa, stralci di conferenze o discorsi, scelti
da due studiosi tedeschi, Volkmar Hansen e Gert Heine, con l'aggiunta
nell'edizione italiana curata da Saverio Vertone delle interviste (o
di altre forme di “conversazione”) pubblicate in Italia e non
comprese nell'edizione originale. L'immagine dello scrittore,
trascinato talora in terreni che non gli sono abituali e neanche
congeniali (le mode letterarie, artistiche e culturali, per esempio,
o la politica politicante), non risulta affatto rimpicciolita dalle
ingenuità o da certe ottimistiche previsioni (illusioni) come quella
sulla breve durata del successo hitleriano e nazista o da alcune
infondate manifestazioni di fiducia (verso Hindemburg e la borghesia
tedesca, per esempio). Risalta invece il suo radicale umanesimo,
conservatore forse, ma coerente, tollerante e problematico.
Il
brano che ho ripreso è la cronaca, redatta da Ranuccio Bianchi
Bandinelli, di un incontro romano in occasione della consegna a Mann
di uno speciale premio dell'Accademia dei Lincei. Vi si legge la
distanza dello scrittore, francamente avverso al sistema comunista ma
mai settario, dalle polemiche della piccola politica e dalle
conventicole intellettuali italiane ed europee. Vi si legge anche
l'intelligenza e l'apertura del “barone rosso” Ranuccio Bianchi
Bandinelli, il grande archeologo di origine aristocratica, che al
tempo era comunista e piuttosto stalinista come erano i comunisti di
quel tempo. L'impressione è che - nonostante le durezze della guerra
fredda (in Usa non era finito il “maccartismo” e in URSS s'era
appena avviato il “disgelo”) e tutte le meschinità di singoli,
gruppi e gruppetti – reggesse, almeno nei migliori, il senso di una
comunità intellettuale cosmopolita, dialogante e pluralista.
(S.L.L.)
Ranuccio Bianchi Bandinelli nel 1947 |
Quando venne il turno che
l'Accademia doveva conferire, per la prima volta, un premio
internazionale di Letteratura, Luigi Russo ed io, all'insaputa uno
dell'altro, proponemmo il nome di Thomas Mann. La commissione
nominata per il conferimento del premio, scegliendo fra le varie
proposte, si fermò sulla nostra e Francesco Flora fu incaricato di
stendere la relazione, che risultò un elevato omaggio di gratitudine
al genio dello scrittore, alla feconda invenzione delle sue creazioni
e a quel suo essersi saputo porre al di sopra delle ideologie per
cercare di dire a tutti la parola di libertà interiore e di
responsabilità dell'essere uomo, nel che risiede il più profondo
ufficio del grande intellettuale. (Mancò forse soltanto, e sembra
strano, un apprezzamento delle straordinarie sue qualità di
stilista.)
Thomas Mann senti
altamente il valore e il significato di quell'omaggio; lasciamo pure
tutto il suo onore a Stoccolma, mi scrisse alludendo al suo premio
Nobel; ma ricevere un premio da Roma, sede di cosi alte tradizioni,
commuove ben diversamente. E quando poi venne a Roma per ringraziare
i Lincei, mentre lo accompagnavo alla Farnesina, vi era in lui quasi
una trepidazione e un'attesa di una solennità particolare.
Tutto si risolse, invece,
in un rinfresco. Le uniche parole solenni furon pronunciate fuori
programma e su richiesta della televisione svizzera. Per una esigenza
tecnica furon ripetute due volte. (Difficoltà, nell'Italia
ufficiale, di esser solenni senza retorica, per cui, rifuggendo
finalmente dalla retorica, si rinunzia alla solennità.)
Attorno a Thomas Mann si
eran messe in moto tutte le rivalità del cosiddetto mondo
intellettuale romano: attriti fra editori, urti di tendenze politiche
e ambizioni di salottini letterari. Le accoglienze liete che erano
state fatte al grande scrittore dalla stampa di sinistra turbarono il
sonno a certi ambienti. Un giovane prelato americano sconosciuto andò
a far visita a Mann e si mostrò, nei suoi discorsi con lui,
straordinariamente inclinato a sinistra, molto più in là di quanto
fosse disposto ad andare lo scrittore stesso. Il quale aveva chiesta
una udienza al papa.
Per fortuna, Thomas Mann
restava, con la sua felicità di nordico di trovarsi a Roma, e con la
sua purezza intellettuale, tanto al disopra di questi giuochi, da non
restarne turbato. Ma, per quanto personalmente mi riguarda, essi mi
avvelenarono completamente quei giorni e, per non esserne né
sembrarne partecipe, mi inibirono ogni conversazione impegnativa.
Meno male che c'era l'archeologia. E le pitture del giardino della
villa di Livia, da poco trasferite alle terme di Diocleziano, così
diverse dal solito repertorio decorativo pompeiano, ci dettero modo
di avviare un goethiano discorso sull'elemento romantico nell'arte
antica, dove il meschino Eckermann ch'io mi sentivo ebbe ancora una
volta modo di porsi interiormente il problema del perché il meglio
dello spirito germanico debba sempre trovarsi in quei tedeschi che
son riusciti a vedere la propria cultura nazionale non più dal
didentro ma dal difuori.
Erano queste, o di questa
natura, le cose che io avrei voluto discutere, se ogni parola non
avesse potuto, in quelle circostanze, prender aspetto di agguato.
Mann dovette sentire questo mio riserbo. «Non abbiamo poi avuto modo
di parlare delle cose che ci stanno più a cuore, e sulle quali ci
saremmo trovati, per molta parte, d'accordo», furono le sue parole
di saluto.
Postilla
Il
brano fu originariamente pubblicato da “Il Contemporaneo”, il 4
giugno 1955. Thomas Mann era stato a Roma per ricevere il
premio dei Lincei dal 20 alla fine di aprile del 1953.
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