Riprendo dalla Storia
della mafia di Giuseppe Carlo
Marino, opera che - costruita con rigore critico - ha goduto di un
grande successo editoriale (le due cose assai di rado vanno insieme),
la ricostruzione di un passaggio importante della storia della
Sicilia. Sono gli anni 1944-46. La mafia – e mi riferisco non solo
al settore militare e criminale, ma anche alle sue ramificazioni
sociali borghesi e aristocratiche – che aveva sostenuto il
movimento separatista, ha deciso, per partecipare al gioco politico
italiano, di “cambiare cavallo”, di trovare altri e diversi
referenti politici. È questo il contesto in cui s'inserisce il
rapido racconto del prof. Marino.
Vi compare con un ruolo importante Antonio Canepa, controversa figura che suscita curiosità e sollecita approfondimenti. A me non dispiace la lettura di Andrea Camilleri che integra le lacune della documentazione storica con l'immaginazione letteraria. (S.L.L.)
Concetto Gallo, il "comandante" dell'Evis che arruolò il bandito Giuliano. Fu deputato alla Costituente e all'Assemblea regionale siciliana per il Mis. |
La decisione della mafia
di abbandonare il progetto secessionista equivaleva, in pratica, a
una drastica virata verso un più familiare gioco tattico sulla linea
della tradizionale trattativa con lo Stato nazionale. Se ne ebbero
conseguenze immediate di varia natura.
La prima consistette
nell’azione per recuperare e potenziare quel classico strumento di
interdizione e di ricatto e, a pari titolo, di oculata mediazione per
la verifica della forza contrattuale sul terreno dell’“ordine”,
costituito dal fenomeno del brigantaggio che nell’immediato
dopoguerra era spontaneamente risorto nell’isola, con una vera e
propria esplosione di bande criminali dedite a rapine, saccheggi,
estorsioni e sequestri di persona, tra le quali, a fianco di quella
di Salvatore Giuliano (che occuperà una parte molto importante nella
nostra storia) nel Palermitano, si segnalavano quelle meno note, ed
efferatissime, dei Badalamenti nell’Agrigentino, di Rosario Avila a
Niscemi (la banda detta, appunto, dei “niscemesi”), degli
Albanese nelle Madonie, del Trabona nel Nisseno e le altre sparse
nelle campagne, dei vari Dottore, Di Maggio, Labruzzo, Li Calzi, Mulè
e Urzì (Renda, 1997).
Per il migliore controllo
e la più conveniente utilizzazione dei briganti, la mafia si sarebbe
avvalsa, come vedremo fra poco, di un organismo “militare” -
l’Evis (Esercito Volontario Indipendenza Siciliana) - che, per la
verità, era nato dall’iniziativa di un’area di forze
separatistiche giovanili, alimentate dalla carica utopistica di un
autentico patriottismo siciliano, di per sé eversivo e
oggettivamente in netta contraddizione con gli interessi della
leadership mafiosa del movimento. Ebbene, la seconda immediata
conseguenza della rinunzia alla secessione fu la realizzazione di una
tenebrosa operazione che avrebbe consentito di svuotare l’Evis dei
suoi contenuti originari e di trasformarlo in uno strumentale
contenitore di briganti.
Seguiamo, adesso, per
sommi capi, le varie fasi della complessa vicenda. Per comprenderla,
occorre rilevare che il movimento indipendentistico siciliano, a
dispetto della natura e della composizione
tutt’ altro che
progressista del suo staff direzionale, per affermarsi e diventare
(come divenne, infatti, senza dubbio nel periodo 1943-44) un
movimento di massa, aveva dovuto dar fuoco alle polveri della più
spregiudicata demagogia, diffondendo ambigui e contraddittori
messaggi “giustizialisti” che avevano infiammato parecchi
giovani, inducendoli spesso ad un’inedita intrepretazione in chiave
rivoluzionaria - e, pertanto, radicalmente libertaria e antimafiosa -
dello stesso progetto secessionista. Finocchiaro Aprile era stato
l’ispirato trombone di tale demagogia nelle piazze di tutta
l’isola. L’effetto inevitabile ne era stato il fenomeno di un
indipendentismo di sinistra (il cui leader politico sarebbe stato
l’avvocato Antonino Varvaro) che un gruppo di studenti
dell’Università di Catania, capeggiati da un loro eccentrico
docente, il giovane professore Antonio Canepa, radicalizzarono nella
forma avventuristica di un’organizzazione militare che avrebbe
dovuto conquistare l’indipendenza siciliana - e, insieme, fare la
“rivoluzione” - con le armi.
Così nacque l’Evis nel
febbraio-marzo del 1945. Il suo comandante, il Canepa (che avrebbe
assunto il nome di battaglia di Turri), era un uomo di fegato:
formatosi nel fascismo di sinistra, caduto il regime aveva chiarito a
se stesso le ragioni di un forse originario e confuso antifascismo ed
era diventato un agente dei servizi britannici; rientrato a Catania
dopo lo sbarco anglo-americano, aveva ripreso servizio come docente
universitario di Storia delle dottrine politiche (era stato in
precedenza assistente di “mistica fascista”) ed aveva aderito
all’indipendentismo, ma con una cultura politica che nel frattempo
era diventata qualcosa di simile ad un anarcomarxismo, sensibile alle
suggestioni rivoluzionarie del comunismo (Carcaci, 1977).
Egli si professava,
infatti, patriota siciliano-comunista, nel senso di concepire la
liberazione della Sicilia come un primo passo nella direzione di una
rivoluzione nazionale che avrebbe dovuto realizzare finalmente la
giustizia sociale nell’isola. Per esigenze tattiche collaborò con
principi, duchi e baronetti del movimento (il duchino Guglielmo di
Carcaci e il Bruno di Belmonte, i Biondo, i Cupane, i Pottino, i La
Motta, i De Stefano, i Petrulla) ed anche con personaggi organici
all’alta mafia e alla massoneria come Concetto Gallo e Attilio
Castrogiovanni, ma era solito lanciare ai suoi diretti seguaci
messaggi come questo: «adesso li utilizziamo, poi ci prenderemo le
loro terre». Le idee che coltivava sono ben riassunte dallo scritto
di un suo allievo: «Vogliamo una Sicilia in cui non si perpetui lo
scandalo di colossali fortune rette sulla miseria e sull’abbrutimento
dei più; soltanto in un regime di vera giustizia sociale potremo
dirci indipendenti e liberi».
Un uomo come il
comandante Turri risultava tanto prezioso come suscitatore di energie
giovanili, quanto scomodo per le idee con le quali tentava di dare al
movimento siciliano una strategia nazionalpopolare. Come
“delegittimarlo” senza creare gravi turbamenti, e dilaganti
defezioni, in quell'area sociale che viveva l'indipendentismo come
battaglia per la giustizia?
Finocchiaro Aprile e i
suoi amici, all'inizio, fecero buon viso a cattiva sorte e gli
diedero via libera anche per l'Evis; ma soprattutto Calogero Vizzini
e i “grandi” della mafia-mafia dell'establishment, che si erano
già decisi, come si è visto, ad abbandonare il separatismo, non
potevano che considerarlo come una spina nel fianco, ovvero come una
scheggia impazzita, da eliminare al più presto. Ovviamente un
orientamento del genere non poteva che essere condiviso dal
baronaggio mafioso del latifondo. E, comunque, se qualcuno avesse
provveduto ad eliminarlo, tanto i latifondisti che i loro amici
gabelloti non si sarebbero certo strappati le vesti.
Sta di fatto che Antonio
Canepa fu effettivamente eliminato (ucciso, insieme a due
giovanissimi studenti, l’uno ginnasiale e l’altro univsisitario,
Giuseppe Giudice e Carmelo Rosano), il 17 giugno del 1945, su una
strada dell’Etna, al bivio Randazzo-Cesarò, reduce da una visita
al primo campo militare del suo esercito di volontari. Indubbiamente
la morte lo colse in un confuso conflitto a fuoco con una pattuglia
di carabinieri di cui esistono vari resoconti ufficiali. Tali
resoconti, però, non spiegano a sufficienza le responsabilità
dell’accaduto: non chiariscono, per esempio, se il conflitto ci fu
davvero o non si trattò invece di una sparatoria unilaterale dei
carabinieri, tanto più che il professore-guerrigliero sarebbe morto,
secondo quanto scrisse il prefetto di Catania del tempo, «per lo
scoppio di una bomba che lo stesso deteneva evidentemente in tasca»
(Marino, 1993).
Questa storia delle bombe
nelle tasche delle vittime è un classico delle relazioni di polizia
di quegli anni. Si aggiungano ai dubbi sulla dinamica dell’episodio
gli interrogativi senza risposta sulle sue matrici: non siamo in
grado di sapere se si trattò di un incontro casuale o di un agguato
accuratamente organizzato e, se organizzato, da quale misteriosa
entità e con quali fonti di informazione. Sull’argomento i
testimoni sono stati assai contraddittori e reticenti. Ad ogni buon
conto, la logica dei fatti, a partire dal valore certo di “movente”
che va attribuito agli interessi politici del fronte mafioso, rende
tollerabili le illazioni che propongono di interpretare l’uccisione
del Canepa come un’esecuzione decisa dall’alto. Tra l’altro,
quanto già conosciamo circa gli organici rapporti stabilitisi tra la
mafia e importanti autorità militari italiane all’ombra del
Consolato generale degli Stati Uniti, fornisce un’interessante
pista interpretativa. Se dalle sensate illazioni potessimo passare a
inconfutabili prove documentarie, avremmo modo di appurare un vero e
proprio capolavoro tattico della mafia: essere riuscita a
trasformare, con un uso improprio di forze dello Stato, una vittima
designata della sua astuta violenza addirittura in un martire, da
offrire alla venerazione della composita base sociale del
sicilianismo!
Quale che sia la “verità vera” sulla morte del professore-guerrigliero, siamo comunque in grado di conoscerne le immediate conseguenze. La sinistra del movimento indipendentistico andò incontro a una logorante vicenda di inesorabile liquidazione. L'Evis per qualche tempo fu tenuto in vita, ma se ne affidò la guida a Concetto Gallo, un personaggio organico alla mafia, che si sarebbe pomposamente definito erede di Canepa (il “secondo Turri”), ma che, in realtà, non avrebbe avuto altra cura che quella di tentare di dare un sommario inquadramento “militare” al brigantaggio, attuando un piano convenuto coi Francesco Paternò di Carcaci e con Lucio Tasca. Dopo avere assunto al suo servizio il feroce Rosario Avola, attuò - con la speciale mediazione del barone Stefano La Motta - la più famosa delle sue operazioni: investì del grado di colonnello dell’Evis il bandito Salvatore Giuliano (Carcaci, 1977).
Quale che sia la “verità vera” sulla morte del professore-guerrigliero, siamo comunque in grado di conoscerne le immediate conseguenze. La sinistra del movimento indipendentistico andò incontro a una logorante vicenda di inesorabile liquidazione. L'Evis per qualche tempo fu tenuto in vita, ma se ne affidò la guida a Concetto Gallo, un personaggio organico alla mafia, che si sarebbe pomposamente definito erede di Canepa (il “secondo Turri”), ma che, in realtà, non avrebbe avuto altra cura che quella di tentare di dare un sommario inquadramento “militare” al brigantaggio, attuando un piano convenuto coi Francesco Paternò di Carcaci e con Lucio Tasca. Dopo avere assunto al suo servizio il feroce Rosario Avola, attuò - con la speciale mediazione del barone Stefano La Motta - la più famosa delle sue operazioni: investì del grado di colonnello dell’Evis il bandito Salvatore Giuliano (Carcaci, 1977).
da Storia della mafia, Newto Compton, 2008
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