Un cavaliere della seconda
metà del XIII secolo,
con elmo chiuso, camaglio e cotta in maglia di
ferro,
sopravveste recante l'effigie araldica, spada ed ascia.
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«Ah! Dieu, que la guerre
est jolie... ». Credevamo che espressioni come queste fossero del
tutto tramontate ai giorni nostri, che fosse ormai impossibile
riciclarle e rispolverarle. Definitivamente tramontati, ormai, i
tempi della guerra giovane e fresca, della bella guerra, della guerra
igiene del mondo, delle Belle Idee per Cui si Muore, perfino dei
mozartiani Bella Vita Militar e
Cherubino-alla-vittoria-alla-gloria-militar. Via, nel più
remoto e deprecabile angolino delle nostre soffitte, coi tamburi di
latta e la paccottiglia futurista, le tempeste d’acciaio e i
proscritti, Junger e von Salomon, e magari quel trovatore del XII
secolo cui tanto piacevano i prati primaverili fioriti di primule e
di sangue, quello che a sua volta piaceva tanto — et pour cause
— a Ezra Pound.
E invece no. Basta poco,
sapete, a far rivivere qualsiasi tipo di passato, magari perfino a
evocare qualunque demonio. Basta conoscere la formula adatta, e il
tempo e il luogo in cui essa va recitata. E, dopo il diluvio fra
l’altro alquanto conformista e stucchevole — lasciatelo dire a un
vecchio guerrafondaio — di pace sempre e comunque e a qualunque
costo, ecco che l’ancor giovanissimo XXI secolo ci reca in dono,
l’avreste mai creduto?, marziali panoplie e belluini accenti. E giù
tutti a discettar di martiri e di eroi, di guerre sante e di guerre
giuste, del bello dell’Iliade — complici l’Achille Pitt e il
rilettore Baricco — e perfino della legittimità e magari del
fascino del mercenariato: con l’alibi — ma è mai stato niente
d’altro? — della locazione d’opera. Non sarà dopo tutto un
altro modo di "crear posti di lavoro", cavalier Berlusconi?
Ma, se non altro, questo
tempo di nuove guerre e di nuovi bellicismi ci regala ogni tanto —
sarà magari una coincidenza — qualche buon libro. È il caso di
Cavalieri e cittadini di Jean-Claude Maire Vigueur (Il Mulino,
Bologna, 2004), che non ha mai lasciato la terra di Francia ma che si
è ormai radicato nell’Università di Firenze e che in questo
lavoro — frutto distillato da una trentina d’anni di ricerche
sull’Italia comunale — ci pone con straordinaria dovizia di
documenti e di esempi (anche molto affascinanti e divertenti da
leggere) di fronte al problema della militia nei centri urbani
dell’Italia comunale: vale a dire di quei cittadini, in gran parte
proprietari terrieri (ma non solo), ch’erano fisicamente ed
economicamente in grado di combattere a cavallo e pesantemente
armati, e che costituivano pertanto un’élite ben conscia di
esserlo e dotata di una sua precisa coscienza e cultura, se non di
classe, quanto meno di stato e di qualità di vita.
Quello della cavalleria
nella nostra società comunale è stato a lungo, tra i medievisti, un
territorio se non evitato quanto meno affrontato sempre o quasi
lateralmente, di striscio. A prenderlo di petto, almeno per quel che
riguardava la storia fiorentina, ci provò oltre un secolo fa il
grande Gaetano Salvemini con un saggio rimasto classico; più tardi
ci son tornati sopra in molti e a vari livelli, anche di recente. E
si potrebbero fare alcuni nomi di valenti studiosi, da Stefano
Gasparri a Duccio Baiestracci a Errico Cuozzo, ad altri, a parte gli
specialisti di storia delle istituzioni militari e delle armi o
quelli di letteratura cavalleresca.
Ma il libro di Maire
Vigueur, che pur accoglie e discute tutti questi contributi e molti
altri, ha la particolarità di proporsi — e lasciamo perdere se
questa sia o meno histoire totale o roba del genere — come
una sintesi a trecentosessanta gradi. Vi si esamina la militia
come strato superiore della società cittadina, almeno tra XII e
buona parte del XIII secolo analizzando i profitti della guerra
(ch’era "bella", per chi la faceva, anche perché e nella
misura in cui era redditizia), il senso di coesione interna fra i
milites e i meccanismi dell’insorgere delle fazioni e della
vendetta, la cultura della fratellanza d’armi e quella dell’odio
— due facce della stessa medaglia — delle quali i cavalieri erano
portatori, il rapido ascendere e il sovente non meno rapido cadere
delle fortune politiche ed economiche di molti fra loro, infine il
tramonto della dignità cavalleresca e delle pratiche nonché del
prestigio sociale a ciò connesso mentre nuovi ceti dirigenti, nuovi
modi di produzione, nuove forme di profitto e nuovi modi di far la
guerra andavano progressivamente imponendosi tra seconda metà del
Duecento e primo Trecento. Un libro pieno di fascino, ma anche solido
e autorevole: frutto in gran parte di ricerche archivistiche di prima
mano e profondamente radicato nella discussione storiografica più
recente e aggiornata. Una nota per chi, attratto da questi temi, si
arrestasse intimorito per il fatto di trovarsi di fronte a un’opera
scientifica, scritta da un rigoroso "addetto ai lavori".
Niente paura. Maire Vigueur è il direttore della rivista italiana di
medievistica divulgativa di maggior successo, «Medioevo». E uno che
sa parlare anche al pubblico dei non-specialisti. Lasciate perdere la
paccottiglia dei finti storici, degli scopiazzatori esoterici e/o
massmediali, degli "esperti" da pomeriggio televisivo: che
non sono affatto più "semplici", sono solo ignoranti e
disonesti. Fidatevi di chi se ne intende.
Il Sole 24 Ore, 14
novembre 2004
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