Quello che segue è
uno degli articoli più “scandalosi” che Pier Paolo Pasolini
scrisse per il “Corriere della Sera” di Piero Ottone, qualche
mese dopo il referendum che confermava la legge sul divorzio e
sanciva una dura sconfitta del Vaticano. È un articolo tanto
scandaloso che neppure Ottone osò collocarlo in prima pagina come
era accaduto e sarebbe accaduto per altre “provocazioni” del
poeta (quella sul processo alla Dc e la fine delle lucciole, per
esempio), ma lo pubblicò in terza, nella rubrica “Tribuna aperta”,
riservata ad “autorevoli voci delle più diverse tendenze, invitate
ad esprimere intorno a temi di attualità il loro giudizio che non
sempre rappresenta quello del Corriere”. Paradossalmente di questo
articolo la cosa che più si ricorda è l'affermazione “io non ho
alle spalle alcuna autorevolezza”, che a me sembra tutto sommato
marginale, poco più che un espediente retorico.
L'importanza
dell'articolo sta altrove: credo infatti che, nonostante il
quarantennio trascorso, questa sia tra le più attuali riflessioni di
Pasolini. Essa ridicolizza i ricorrenti tentativi di appropriazione
“clericale” della sua opera e anticipa processi che si sono
puntualmente svolti. Farebbe bene a leggersela, per esempio, il papa
riformista Bergoglio, le cui mediazioni appaiono sempre più
velleitarie. Il tentativo del Papa polacco di riportare in auge una
Chiesa trionfante che si accorda con tutti i poteri e le potenze e –
nello stesso tempo – contrappone alla modernità i misteri di
Fatima e tutto l'oscurantismo medievaleggiante, è fallito
miseramente, ma rischia di fallire – per le sue prudenze - anche il
tentativo del papa argentino. Non si può predicare povertà e fare
causa comune coi poveri da certi palazzi. (S.L.L.)
Riferendosi al mio
intervento sulla situazione attuale e reale della Chiesa (Corriere
della Sera, 22 settembre 1974) l’Osservatore Romano — in un
articolo di violenta reazione — scrive fra l’altro: «Non
sappiamo donde il suddetto tragga tanta autorevolezza se non da
qualche film di un enigmatico e riprovevole decadentismo,
dall’abilità di uno scrivere corrosivo e da taluni atteggiamenti
alquanto eccentrici».
Limitiamoci a osservare
questa antiquata frase, che contiene tutto lo «spirito» (in senso
di «cultura») dell'articolo clericale. Ciò che prima di tutto vi
si nota è un'idea che a una persona normale sembra subito aberrante:
la idea cioè che qualcuno, per scrivere qualcosa, debba possedere
«autorevolezza». Io non capisco sinceramente come possa venire in
mente una cosa simile. Ho sempre pensato, come qualsiasi persona
normale, che dietro a chi scrive ci debba essere necessità di
scrivere, libertà, autenticità, rischio. Pensare che ci debba
essere qualcosa di sociale e di ufficiale che «fissi»
l’autorevolezza di qualcuno, è un pensiero, appunto aberrante,
dovuto evidentemente alla deformazione di chi non sappia più
concepire verità al di fuori dell’autorità.
Io non ho alle mie spalle
nessuna autorevolezza: se non quella che mi proviene paradossalmente
dal non averla e dal non averla voluta; dall'essermi messo in
condizione di non aver niente da perdere, e quindi di non essere
fedele a nessun patto che non sia quello con un lettore che io
considero del resto degno di ogni più scandalosa ricerca.
Ma supponiamo, per
ipotesi assurda, che una mia «autorevolezza» esista: malgrado me
stesso, mettiamo, e decretata oggettivamente nel contesto culturale e
nella vita pubblica italiana. In tal caso la proposizione vaticana è
ancora più grave. Infatti essa mette sotto accusa non solo le
cerchie culturali, entro cui io opero come scrittore, ma, a questo
punto, anche le centinaia di migliaia e. in qualche caso, i milioni
di italiani «semplici», che decretano il successo delle mie opere
cinematografiche. Insomma sono colpevoli i critici che mi giudicano e
sono degli sciocchi gli spettatori che vanno a vedere i miei films.
Tutto ciò è «culturame». E «culturame» perché non è
clerico-fascista. Infatti quando sull'Osservatore Romano si scrive
che un film è «di un enigmatico e riprovevole '’decadentismo”»,
è inevitabile: il senso di queste parole risulta lo stesso che per
la sottocultura che bruciava i libri e i quadri «decadenti» in nome
della «morale sana». Anche lo «scrivere corrosivo» è uno stilema
tipico di una trentina di anni fa: perché istituisce il confronto
con una ipotetica salute e integrità della cultura ufficiale,
fondata sull’autorità e sul potere. Infine, con l’accenno agli
«atteggiamenti eccentrici» siamo all’allusione personale. Ma su
questo non replicherò. Cristo del resto non ha mai messo in
condizione la «pecora nera» (o «smarrita») di dover replicare.
La storia della Chiesa è
una storia di potere e di delitti di potere; ma quel che è ancora
peggio, è, almeno per quanto riguarda gli ultimi secoli, una storia
di ignoranza. Nessuno potrebbe per esempio dimostrare che continuar a
parlare oggi di San Tommaso, ignorando la cultura liberale,
razionalistica e laica, prima, e poi la cultura marxista in politica
e la cultura freudiana in psicologia (per tenermi a schemi primi e
elementari i, non sia un atto sotto-culturale. L’ignoranza della
Chiesa in questi ultimi due secoli è stata paradigmatica,
soprattutto per l'Italia. È su essa che si è modellata l’ignoranza
qualunquistica della borghesia italiana. Si tratta infatti di una
ignoranza la cui definizione culturale è: una perfetta coesistenza
di «irrazionalismo», «formalismo» e «pragmatismo». Le sentenze
della Sacra Rota sono per esempio un enorme corpus di documenti che
dimostrano l'arbitrarietà spiritualistica e formalistica da una
parte, e dall'altra il tetro praticismo (che rasenta addirittura
forme di fanatico «behaviorismo») con cui la Chiesa guarda le cose
del mondo.
Gli aggiornamenti che
parte del clero, anche vaticano, ha tentato e talvolta attuato, non
fanno che confermare quanto ho detto. Infatti tali aggiornamenti
riguardano la tecnica e la sociologia. Ancora una volta la reale
cultura è saltata. Ancora una volta sono gli strumenti del potere
che appaiono significativi e decisivi.
È questa particolare
cultura vaticana, come mancanza di reale cultura, che probabilmente
ha impedito all’articolista dell'Osservatore Romano di capire ciò
che io ho scritto sulla crisi della Chiesa. Che non era affatto un
attacco: era invece quasi un atto di solidarietà - certo,
estremamente anomala e prematura- dovuta al fatto che — finalmente
- la Chiesa mi appariva come sconfitta: e quindi finalmente libera da
se stessa, cioè dal potere.
In un articolo sulla
Stampa (29 settembre 1974) Mario Soldati parla della «risata» di un
gesuita dovuta alla richiesta se egli avesse un’automobile: in tale
«risata» Soldati sente un primo accento, falso, di carattere
pratico e tradizionalistico («No, non ce l’ho la macchina, non son
più i tempi in cui i gesuiti possiedono una macchina»). Ma, sotto,
nel fondo, nell’essenza di quella «risata», Soldati sente una
sincera, esaltante, irresistibile felicità. La felicità di vedere
finalmente rovesciati e rinnovati i rapporti della Chiesa col mondo.
La felicità della sconfìtta. La felicità del dover ricominciare
tutto daccapo. « La liberazione dal potere ».
Nel pianto di Paolo VI
(mi riferisco al suo storico discorso di fine estate a
Castelgandolfo) io ho sentito la stessa cosa: un primo accento di
dolore e delusione, «meritati», per il declino di un grandioso
apparato di potere; e uri più sotterraneo accento di dolore sincero
e profondo, cioè religioso, carico di possibilità future.
Quali sono queste
possibilità future?
Prima di tutto la
distinzione radicale tra Chiesa e Stato. Mi ha sempre stupito, anzi,
per la verità, profondamente indignato, l'interpretazione clericale
della frase di Cristo: «Dà a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio
ciò che è di Dio» : interpretazione in cui si era concentrata
tutta l'ipocrisia e l'aberrazione che hanno caratterizzato la Chiesa
controriformistica. Si è fatta passare cioè — per quanto ciò
possa sembrare mostruoso — come moderata, cinica e realistica una
frase di Cristo che era evidentemente, radicale, estremistica,
perfettamente religiosa. Cristo infatti non poteva in alcun modo
voler dire: «Accontenta questo e quello, non cercar grane politiche,
concilia la praticità della vita sociale e l’assolutezza di quella
religiosa, dà un colpo al cerchio e uno alla botte, ecc.». Al
contrario Cristo — in assoluta coerenza a tutta la sua predicazione
— non poteva che voler dire : «Distingui nettamente tra Cesare e
Dio: non confonderli; non farli coesistere qualunquisticamente con la
scusa di poter servire meglio Dio; "non conciliarli":
ricorda bene che il mio “e” è disgiuntivo, crea due universi non
comunicanti, o, se mai contrastanti: insomma, lo ripeto,
"inconciliabili” ». Cristo ponendo questa dicotomia
estremistica, spinge e invita all’opposizione perenne a Cesare,
anche se magari non-violenta (a differenza di quella degli zeloti).
La seconda novità
religiosa, che si prospetta per il futuro" è la seguente. Fino
a oggi la Chiesa è stata la Chiesa di un universo contadino, il
quale ha tolto al cristianesimo il suo solo momento originale
rispetto a tutte le altre religioni, cioè Cristo. Nell’universo
contadino Cristo è stato assimilato a uno dei mille adoni o delle
mille proserpine esistenti: i quali ignoravano il tempo reale, cioè
la storia. Il tempo degli dei agricoli simili a Cristo era un tempo
«sacro» o «liturgico» di cui valeva la ciclicità, l’eterno
ritorno.
Il tempo della loro
nascita, della loro azione, della loro morte, della loro discesa agli
inferi e della loro resurrezione era un tempo paradigmatico, a cui
periodicamente il tempo della vita, riattualizzandolo, si modellava.
Al contrario, Cristo ha
accettato il tempo «unilineare», cioè quella che noi chiamiamo
storia. Egli ha rotto la struttura circolare delle vecchie religioni:
e ha parlato di un «fine», non di un «ritorno». Ma, ripeto, per
due millenni, il mondo contadino ha continuato ad assimilare Cristo
ai suoi vecchi modelli mitici: ne ha fatto l’incarnazione di un
principio assiologico, attraverso cui dar senso al ciclo delle
culture. La predicazione di Cristo non hai avuto molto peso. Solo le
«élites » veramente religiose della classe dominante hanno capito
per secoli il vero senso di Cristo. Ma la Chiesa, che era la Chiesa
ufficiale della classe dominante, ha sempre accettato l’equivoco:
essa non poteva esistere infatti al di fuori delle masse contadine.
Ora, di colpo, la
campagna ha cessato di essere religiosa. Ma, in compenso, comincia a
essere religiosa la città. Il cristianesimo da agricolo si fa
urbano: caratteristica di tutte le religioni urbane — e quindi
delle «élites» delle classi dominanti — è la sostituzione
(cristiana) del fine al ritorno: del misticismo soteriologico alla
«pietas» rustica. Dunque, una religione urbana, come schema, è
infinitamente più capace di accogliere il modello dì Cristo che
qualsiasi religione contadina.
Il consumismo e la
proliferazione delle industrie terziarie ha distrutto in Italia il
mondo campestre e sta distruggendolo in tutto il mondo (il futuro
dell’agricoltura è anch’esso industriale): non ci saranno dunque
più preti, o, se ci saranno, saranno idealmente nati in città. Ma
questi preti «nati in città», evidentemente, non vorranno in alcun
modo saperne di stare insieme a poliziotti e militari, a burocrati o
a grandi industriali: infatti essi non potranno che essere degli
uomini colti, formatisi in un mondo che anziché avere alle spalle
Adone e Proserpina. si fonda sui grandi testi della cultura moderna.
Se vuol sopravvivere in quanto Chiesa, la Chiesa nd può dunque che
abbandonare il potere e abbracciare quella cultura — da lei sempre
odiata — che è per sua stessa natura libera, antiautoritaria, in
continuo divenire, contraddittoria, collettiva, scandalosa.
E poi, infine, è proprio detto che la Chiesa debba coincidere col Vaticano? Se — facendo una donazione del grande scenografìa (folcloristica) dell’attuale sede vaticana allo Stato italiano, e regalando il ciarpame (folcloristico) di stole e gabbane, di flabelli e sedie gestatorie agli operatori di Cinecittà — il Papa andasse a sistemarsi in clergyman coi suoi collaboratori, in qualche scantinato di Tormarancio o del Tuscolano, non lontano dalle catacombe di San Damiano o Santa Priscilla la Chiesa cesserebbe forse di essere Chiesa?
Corriere della Sera, 6 ottobre 1974
E poi, infine, è proprio detto che la Chiesa debba coincidere col Vaticano? Se — facendo una donazione del grande scenografìa (folcloristica) dell’attuale sede vaticana allo Stato italiano, e regalando il ciarpame (folcloristico) di stole e gabbane, di flabelli e sedie gestatorie agli operatori di Cinecittà — il Papa andasse a sistemarsi in clergyman coi suoi collaboratori, in qualche scantinato di Tormarancio o del Tuscolano, non lontano dalle catacombe di San Damiano o Santa Priscilla la Chiesa cesserebbe forse di essere Chiesa?
Corriere della Sera, 6 ottobre 1974
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