Arcosanti |
Presentare
e raccontare la figura di un individuo geniale, solitario, unico come
Paolo Soleri non è semplice. Sicuramente emozionante, perché pare
quasi impossibile spiegare la dolce, intelligente tenacia con cui ha
tenuto fede per tutta la vita a una sua idea di mondo migliore per
l’essere umano. Verrebbe voglia di raccontare tutto, spiegare
tutto, chi era, da dove veniva, dove ha scelto di vivere, cosa ha
creato, come ha sognato e cosa, e come ha continuato a vivere
concretamente il suo sogno fino alla fine.
Architetto,
laureato nel 1946 presso il Politecnico di una Torino distrutta dal
conflitto mondiale e che si ormai apprestava ad affrontare il periodo
del dopoguerra e della ricostruzione, dopo aver avuto tra le mani un
piccolo libro sull’architettura e sulle opere di Frank Lloyd
Wright, decide di spedire, sì, proprio all’architetto americano
più famoso al mondo, una lettera in cui chiedeva di poter andare in
America per poter studiare e imparare presso il suo studio, in
Arizona, a Taliesin West (quello che era diventata ormai da anni la
residenza invernale dell’architetto). Altri tempi, sicuramente, ma
il signor Arch. Wright aveva risposto a quello studentello italiano
con una lettera in cui diceva che sì, se riusciva a trovare il modo
per raggiungerli, gli avrebbero dato ospitalità. La lettera era
firmata Frank Lloyd Wright, Taliesin West, Scottsdale, Arizona. E
Soleri quel viaggio per il mondo nuovo l’aveva cominciato e,
bloccato all’immigrazione per 6 settimane alla fine di quell’anno,
avrebbe passato il tempo a disegnare skyline
di Manhattan. Sarebbe poi arrivato in Arizona, sarebbe stato da
Wright per 18 mesi e, a parte un breve periodo in Italia, nel caldo e
affascinante deserto dell’Arizona sarebbe sempre tornato, e lì
avrebbe vissuto tutta la vita.
Il
20 settembre, al Museo Marino Marini di Firenze, è previsto un primo
screening del film documentario Paolo Soleri Beyond Form
(www.beyondformpaolosoleri.com), della filmaker Aimee
Madsen.
Con
un lavoro paziente d’interviste e incontri, con chi il mondo di
Soleri l’ha vissuto e lo vive tuttora, la regista ha composto un
profilo dell’architetto sognatore. Il 24 settembre, nell’ambito
del Cersaie a Bologna Fiere, verrà ripresentato una seconda volta,
insieme all’evento A vision is indeed reality: a tribute
to Paolo Soleri, con Roger
Tomalty e Aimee Madsen. Alle facoltà di architettura di Roma e
Milano invece, ci saranno conferenze su Paolo Soleri. Ci si augura
che il film incontri interessi eccellenti da parte del mondo
dell’architettura, del design, dell’urbanistica, e anche dei
cinefili appassionati di documentari. Sarebbe davvero un peccato che
un film su un architetto italiano tanto particolare e tanto più
avanti rispetto ai suoi tempi, laureato a Torino, apprezzato
all’estero e negli Stati Uniti, l’anticipatore di un’ecologia
architettonica e urbana che lui stesso chiamò Arcologia (fusione di
Architettura ed Ecologia), non venisse conosciuto.
Ma
si sa, Nemo propheta in patria,
e Soleri è rimasto per molto tempo un visionario che ha fantasticato
utopie urbane troppo green
e troppo irrealizzabili. Ma in realtà, non ha fantasticato, lungi da
lui. Forse è proprio uno dei pochi architetti che, realmente, si
sono sporcati le mani non solo di calce, ma se le sono anche rovinate
scavando nel deserto con il piccone. L’architetto Roger Tomalty,
amico, compagno dell’avventura-costruzione di Arcosanti, e
direttore degli studios Paolo Soleri, lo definisce, come chiunque lo
abbia conosciuto, «artista, architetto, filosofo». Quello che
Soleri ha fatto per tutta la vita è stato creare, studiare,
promuovere l’idea di un ambiente – quindi anche e soprattutto
quello architettonico – che fosse in armonia con l’uomo.
Era
partito per andare a lavorare e imparare da Wright, ma le loro
visioni sulla città erano davvero troppo distanti. Se Wright, con la
sua Brodacre City, promuoveva la dimensione individuale e la
decentralizzazione, Soleri, da subito, si pose su un’altra
prospettiva, diametralmente opposta: quella in cui un organismo
dipende necessariamente dalle altre sue parti. Quelle parti devono
essere organizzate per creare una situazione ottimale per la città,
per il centro urbano, mantenendo la vicinanza e l’efficienza della
comunità che, a sua volta, partecipa e crea il tutto.
Inizialmente
aveva creato un primo progetto chiamato Cosanti, un prototipo della
successiva Arcosanti. Qui, con l’aiuto dell’architetto e amico
Mark Mills, conosciuto a Taliesin West, aveva scavato e costruito in
prima persona un’architettura nel deserto, all’interno della
quale aveva abitato e che avrebbe continuato a migliorare nel tempo.
Aveva poi progettato e realizzato uno dei suoi pochi altri progetti
nel deserto (sospirava, ricordando che non ha mai avuto una
committenza forte che gli desse lavoro). Era una casa vera e propria,
con una committente e dove, oltre a degli spazi per la vita comune
aperti alla luce e al deserto, le altre parti dell’abitazione –
non diversamente dall’architettura locale della popolazione dei
Native American - sarebbero state scavate nel terreno per mantenere
l’ambiente protetto dalle temperature esterne, d’estate molto
alte. E questo, in sé, è già un esempio di rispetto dell’ambiente
messo in pratica. Non si lotta con l’ambiente ma si cerca
semplicemente il modo più naturale per riuscire a integrare il
manufatto architettonico senza alterare il paesaggio e l’ambiente
dato. Portava così a compimento il progetto della casa di chi
sarebbe diventata la madre della sua futura moglie, Collie.
In
realtà, di progetti ce ne furono altri, e importanti. Come ci
racconta il documentario, Soleri ha realizzato nei primi anni 50 –
quando si era trasferito con la moglie e la figlia a Vietri sul Mare,
sulla costiera Amalfitana – un grosso progetto di sei piani per la
sede dell’azienda di ceramiche della famiglia Solimeni. La
superficie esterna dei muri - e in tempo di ricostruzione e
dopoguerra certi accorgimenti erano molto apprezzati – è ricoperta
da bottiglie, da «anforette», che sono state infilate con il collo
nella parete di cemento, lasciano invece il fondo, la base della
bottiglia, come copertura decorativa. Era una soluzione, per
quell’azienda, molto economica e vantaggiosa, e che dava una
struttura solida al muro. All’interno invece, la composizione è
molto ingegnosa, con i sei piani lasciati aperti al centro
dell’edificio, facendo filtrare all’interno la luce naturale
attraverso una ricca organizzazione spaziale e una coerenza
geometrica che non contempla chiusure troppo severe. Questo succedeva
nel 1953. Si può azzardare l’ipotesi che un’architettura del
genere, in un’Italia che si stava leccando le ferite della guerra,
fosse sicuramente insolita. Lo era di certo per Vietri sul Mare.
È
importante ricordare infatti che, la Torre Velasca a Milano, dello
studio Bbpr, verrà costruita solo nel 1958, cinque anni più tardi.
L’organizzazione spaziale «organica», di memoria wrightiana,
avrebbe accompagnato la mano di Soleri in tutti i suoi progetti e le
sue invenzioni. «Prendi l’iniziativa. Per me è stato così per
tutta la vita. Non aspettarti niente, perché va a finire che
potrebbe anche non succedere niente». È una frase coraggiosa che
l’architetto pronuncia proprio all’inizio del film. E lui, le
cose, non ha aspettato che arrivassero. Aveva da sempre il sogno di
realizzare una città in cui gli uomini potessero cominciare a vivere
in modo diverso, economicamente autosufficienti, senza macchine, con
un design low impact.
E cos’ha fatto? Una volta tornato in Arizona subito dopo
l’esperienza italiana, nel 1970 ha comprato con la moglie 5 acri di
deserto e qui, convinto che solo lui avrebbe potuto lavorare
realmente al suo desiderio, così tanto grande e così impossibile,
lui, con l’aiuto di altri sognatori, architetti, studenti, ha
cominciato a costruire il suo vero sogno: Arcosanti. Un esperimento,
un laboratorio urbano, che è ancora in crescita e a cui ancora si
lavora.
Regolarmente,
studenti volontari da tutto il mondo, portano il proprio entusiasmo e
la propria passione proprio qui, per cercare di essere protagonisti
del proprio futuro. Negli anni 70, erano arrivate un centinaio di
persone, ed era stato una specie di esperimento che non aveva
certamente ricevuto l’attenzione accademica che forse avrebbe
meritato (ma che avrebbe comunque avuto molto più tardi). In quegli
anni, la forza dell’entusiasmo per un mondo in cui credere aveva
dato un’iniezione senza pari di energia. Quei sognatori vivevano
un’idea e, quell’idea, in quei giorni, era stata sufficiente.
Arcosanti,
che avrebbe dovuto ospitare 5000 persone, non è ancora finita, i
workshop per i volontari da tutto il mondo durano tre settimane o
più, e non è mai stata abitata da più di 200 persone. Ma comunque,
oggi resta l’unico nuovo progetto urbano che esiste negli Stati
uniti. Soleri ha fatto in modo che chi l’ha seguito, chi ha
imparato e imparerà dal suo esempio, operi nel grande rispetto della
natura e della sua idea di Arcologia. Che oggi, di fronte ad una
situazione ecologica e di vivibilità sempre più allarmante, trova
molti più ascoltatori attenti rispetto a solo qualche decennio fa.
In un’intervista, una volta aveva detto: «siamo occupati a
esportare il sogno americano di consumo nel mondo. Probabilmente, le
conseguenze saranno catastrofiche».
Come
fare però per mantenersi? Una delle attività che Soleri avrebbe
cominciato a coltivare, e che non avrebbe mai abbandonato, è quella
delle campanelle o, per chiamarle con il loro vero nome, le Windbell:
in argilla, in bronzo, realizzate dalla sua mano ferma e decisa. Una
delle cose che stupisce e ha sempre stupito tutti, è stata la sua
dedizione e pazienza per «accompagnare» a termine i lavori in cui
si era impegnato. Perché Paolo Soleri conosceva il vero piacere di
fare le cose, di modellare con le mani il materiale grezzo, di
disegnare (stoffe già da quando era all’università), di decorare
pavimenti in cemento con disegni colorati (come quelli che Wright, in
visita a Cosanti, avrebbe definito Soleri’s genius).
Parlava spesso proprio di Homo Faber,
e sapeva del piacere di poter dire «L’ho fatto io». Soprattutto,
conosceva la saggezza ecologica di apprezzare i materiali locali, che
sono parte del processo, rispettandone le qualità. A volte modellava
le campanelle per ore, senza mai sollevare gli occhi. Ha realizzato
tanta arte, disegni, sculture, spesso in bronzo o, come Il
Donnone (una scultura che
raffigura una donna di dimensioni «abbondanti») in acciaio (al
Museo di Arte di Phoenix). L’architettura, quella vera, lo avrebbe
visto ancora impegnato nel 1964, in un altro grosso progetto: quello
dell’anfiteatro della Indian School di Santa Fe in New Mexico
(anfiteatro che oggi è alla ricerca di fondi per non essere
demolito). Ma questa strana dedizione è stata contagiosa per tutto
il mondo, per gli studenti di architettura – e non solo – che
arrivano da tutte le parti del mondo per poter fare un’esperienza
formativa ad Arcosanti.
Soleri
aveva un’etica dell’architettura e del rispetto, che ha cercato
di tenere presente per tutta la vita. Basta ascoltare i modi gentili
e, davvero, di un altro secolo, per imparare a capire che Mr. Soleri
era realmente un gran signore, geniale, con mille idee, coraggioso, e
che mai, proprio mai, avrebbe ipotizzato l’alternativa di non
seguire il proprio sogno. Arcosanti, a 70 miglia da Phoenix, resta
una visione concretamente ottimista sul domani, che tenta di mostrare
alle nuove generazioni di architetti che un’alternativa è
possibile.
Alias
il manifesto, 14 settembre 2013
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