4.8.16

Architettura ed ecologia. Paolo Soleri architetto sognatore (Beatrice Cassina)

Arcosanti
Presentare e raccontare la figura di un individuo geniale, solitario, unico come Paolo Soleri non è semplice. Sicuramente emozionante, perché pare quasi impossibile spiegare la dolce, intelligente tenacia con cui ha tenuto fede per tutta la vita a una sua idea di mondo migliore per l’essere umano. Verrebbe voglia di raccontare tutto, spiegare tutto, chi era, da dove veniva, dove ha scelto di vivere, cosa ha creato, come ha sognato e cosa, e come ha continuato a vivere concretamente il suo sogno fino alla fine.
Architetto, laureato nel 1946 presso il Politecnico di una Torino distrutta dal conflitto mondiale e che si ormai apprestava ad affrontare il periodo del dopoguerra e della ricostruzione, dopo aver avuto tra le mani un piccolo libro sull’architettura e sulle opere di Frank Lloyd Wright, decide di spedire, sì, proprio all’architetto americano più famoso al mondo, una lettera in cui chiedeva di poter andare in America per poter studiare e imparare presso il suo studio, in Arizona, a Taliesin West (quello che era diventata ormai da anni la residenza invernale dell’architetto). Altri tempi, sicuramente, ma il signor Arch. Wright aveva risposto a quello studentello italiano con una lettera in cui diceva che sì, se riusciva a trovare il modo per raggiungerli, gli avrebbero dato ospitalità. La lettera era firmata Frank Lloyd Wright, Taliesin West, Scottsdale, Arizona. E Soleri quel viaggio per il mondo nuovo l’aveva cominciato e, bloccato all’immigrazione per 6 settimane alla fine di quell’anno, avrebbe passato il tempo a disegnare skyline di Manhattan. Sarebbe poi arrivato in Arizona, sarebbe stato da Wright per 18 mesi e, a parte un breve periodo in Italia, nel caldo e affascinante deserto dell’Arizona sarebbe sempre tornato, e lì avrebbe vissuto tutta la vita.
Il 20 settembre, al Museo Marino Marini di Firenze, è previsto un primo screening del film documentario Paolo Soleri Beyond Form (www.beyondformpaolosoleri.com), della filmaker Aimee Madsen.
Con un lavoro paziente d’interviste e incontri, con chi il mondo di Soleri l’ha vissuto e lo vive tuttora, la regista ha composto un profilo dell’architetto sognatore. Il 24 settembre, nell’ambito del Cersaie a Bologna Fiere, verrà ripresentato una seconda volta, insieme all’evento A vision is indeed reality: a tribute to Paolo Soleri, con Roger Tomalty e Aimee Madsen. Alle facoltà di architettura di Roma e Milano invece, ci saranno conferenze su Paolo Soleri. Ci si augura che il film incontri interessi eccellenti da parte del mondo dell’architettura, del design, dell’urbanistica, e anche dei cinefili appassionati di documentari. Sarebbe davvero un peccato che un film su un architetto italiano tanto particolare e tanto più avanti rispetto ai suoi tempi, laureato a Torino, apprezzato all’estero e negli Stati Uniti, l’anticipatore di un’ecologia architettonica e urbana che lui stesso chiamò Arcologia (fusione di Architettura ed Ecologia), non venisse conosciuto.
Ma si sa, Nemo propheta in patria, e Soleri è rimasto per molto tempo un visionario che ha fantasticato utopie urbane troppo green e troppo irrealizzabili. Ma in realtà, non ha fantasticato, lungi da lui. Forse è proprio uno dei pochi architetti che, realmente, si sono sporcati le mani non solo di calce, ma se le sono anche rovinate scavando nel deserto con il piccone. L’architetto Roger Tomalty, amico, compagno dell’avventura-costruzione di Arcosanti, e direttore degli studios Paolo Soleri, lo definisce, come chiunque lo abbia conosciuto, «artista, architetto, filosofo». Quello che Soleri ha fatto per tutta la vita è stato creare, studiare, promuovere l’idea di un ambiente – quindi anche e soprattutto quello architettonico – che fosse in armonia con l’uomo.
Era partito per andare a lavorare e imparare da Wright, ma le loro visioni sulla città erano davvero troppo distanti. Se Wright, con la sua Brodacre City, promuoveva la dimensione individuale e la decentralizzazione, Soleri, da subito, si pose su un’altra prospettiva, diametralmente opposta: quella in cui un organismo dipende necessariamente dalle altre sue parti. Quelle parti devono essere organizzate per creare una situazione ottimale per la città, per il centro urbano, mantenendo la vicinanza e l’efficienza della comunità che, a sua volta, partecipa e crea il tutto.
Inizialmente aveva creato un primo progetto chiamato Cosanti, un prototipo della successiva Arcosanti. Qui, con l’aiuto dell’architetto e amico Mark Mills, conosciuto a Taliesin West, aveva scavato e costruito in prima persona un’architettura nel deserto, all’interno della quale aveva abitato e che avrebbe continuato a migliorare nel tempo. Aveva poi progettato e realizzato uno dei suoi pochi altri progetti nel deserto (sospirava, ricordando che non ha mai avuto una committenza forte che gli desse lavoro). Era una casa vera e propria, con una committente e dove, oltre a degli spazi per la vita comune aperti alla luce e al deserto, le altre parti dell’abitazione – non diversamente dall’architettura locale della popolazione dei Native American - sarebbero state scavate nel terreno per mantenere l’ambiente protetto dalle temperature esterne, d’estate molto alte. E questo, in sé, è già un esempio di rispetto dell’ambiente messo in pratica. Non si lotta con l’ambiente ma si cerca semplicemente il modo più naturale per riuscire a integrare il manufatto architettonico senza alterare il paesaggio e l’ambiente dato. Portava così a compimento il progetto della casa di chi sarebbe diventata la madre della sua futura moglie, Collie.
In realtà, di progetti ce ne furono altri, e importanti. Come ci racconta il documentario, Soleri ha realizzato nei primi anni 50 – quando si era trasferito con la moglie e la figlia a Vietri sul Mare, sulla costiera Amalfitana – un grosso progetto di sei piani per la sede dell’azienda di ceramiche della famiglia Solimeni. La superficie esterna dei muri - e in tempo di ricostruzione e dopoguerra certi accorgimenti erano molto apprezzati – è ricoperta da bottiglie, da «anforette», che sono state infilate con il collo nella parete di cemento, lasciano invece il fondo, la base della bottiglia, come copertura decorativa. Era una soluzione, per quell’azienda, molto economica e vantaggiosa, e che dava una struttura solida al muro. All’interno invece, la composizione è molto ingegnosa, con i sei piani lasciati aperti al centro dell’edificio, facendo filtrare all’interno la luce naturale attraverso una ricca organizzazione spaziale e una coerenza geometrica che non contempla chiusure troppo severe. Questo succedeva nel 1953. Si può azzardare l’ipotesi che un’architettura del genere, in un’Italia che si stava leccando le ferite della guerra, fosse sicuramente insolita. Lo era di certo per Vietri sul Mare.
È importante ricordare infatti che, la Torre Velasca a Milano, dello studio Bbpr, verrà costruita solo nel 1958, cinque anni più tardi. L’organizzazione spaziale «organica», di memoria wrightiana, avrebbe accompagnato la mano di Soleri in tutti i suoi progetti e le sue invenzioni. «Prendi l’iniziativa. Per me è stato così per tutta la vita. Non aspettarti niente, perché va a finire che potrebbe anche non succedere niente». È una frase coraggiosa che l’architetto pronuncia proprio all’inizio del film. E lui, le cose, non ha aspettato che arrivassero. Aveva da sempre il sogno di realizzare una città in cui gli uomini potessero cominciare a vivere in modo diverso, economicamente autosufficienti, senza macchine, con un design low impact. E cos’ha fatto? Una volta tornato in Arizona subito dopo l’esperienza italiana, nel 1970 ha comprato con la moglie 5 acri di deserto e qui, convinto che solo lui avrebbe potuto lavorare realmente al suo desiderio, così tanto grande e così impossibile, lui, con l’aiuto di altri sognatori, architetti, studenti, ha cominciato a costruire il suo vero sogno: Arcosanti. Un esperimento, un laboratorio urbano, che è ancora in crescita e a cui ancora si lavora.
Regolarmente, studenti volontari da tutto il mondo, portano il proprio entusiasmo e la propria passione proprio qui, per cercare di essere protagonisti del proprio futuro. Negli anni 70, erano arrivate un centinaio di persone, ed era stato una specie di esperimento che non aveva certamente ricevuto l’attenzione accademica che forse avrebbe meritato (ma che avrebbe comunque avuto molto più tardi). In quegli anni, la forza dell’entusiasmo per un mondo in cui credere aveva dato un’iniezione senza pari di energia. Quei sognatori vivevano un’idea e, quell’idea, in quei giorni, era stata sufficiente.
Arcosanti, che avrebbe dovuto ospitare 5000 persone, non è ancora finita, i workshop per i volontari da tutto il mondo durano tre settimane o più, e non è mai stata abitata da più di 200 persone. Ma comunque, oggi resta l’unico nuovo progetto urbano che esiste negli Stati uniti. Soleri ha fatto in modo che chi l’ha seguito, chi ha imparato e imparerà dal suo esempio, operi nel grande rispetto della natura e della sua idea di Arcologia. Che oggi, di fronte ad una situazione ecologica e di vivibilità sempre più allarmante, trova molti più ascoltatori attenti rispetto a solo qualche decennio fa. In un’intervista, una volta aveva detto: «siamo occupati a esportare il sogno americano di consumo nel mondo. Probabilmente, le conseguenze saranno catastrofiche».
Come fare però per mantenersi? Una delle attività che Soleri avrebbe cominciato a coltivare, e che non avrebbe mai abbandonato, è quella delle campanelle o, per chiamarle con il loro vero nome, le Windbell: in argilla, in bronzo, realizzate dalla sua mano ferma e decisa. Una delle cose che stupisce e ha sempre stupito tutti, è stata la sua dedizione e pazienza per «accompagnare» a termine i lavori in cui si era impegnato. Perché Paolo Soleri conosceva il vero piacere di fare le cose, di modellare con le mani il materiale grezzo, di disegnare (stoffe già da quando era all’università), di decorare pavimenti in cemento con disegni colorati (come quelli che Wright, in visita a Cosanti, avrebbe definito Soleri’s genius). Parlava spesso proprio di Homo Faber, e sapeva del piacere di poter dire «L’ho fatto io». Soprattutto, conosceva la saggezza ecologica di apprezzare i materiali locali, che sono parte del processo, rispettandone le qualità. A volte modellava le campanelle per ore, senza mai sollevare gli occhi. Ha realizzato tanta arte, disegni, sculture, spesso in bronzo o, come Il Donnone (una scultura che raffigura una donna di dimensioni «abbondanti») in acciaio (al Museo di Arte di Phoenix). L’architettura, quella vera, lo avrebbe visto ancora impegnato nel 1964, in un altro grosso progetto: quello dell’anfiteatro della Indian School di Santa Fe in New Mexico (anfiteatro che oggi è alla ricerca di fondi per non essere demolito). Ma questa strana dedizione è stata contagiosa per tutto il mondo, per gli studenti di architettura – e non solo – che arrivano da tutte le parti del mondo per poter fare un’esperienza formativa ad Arcosanti.
Soleri aveva un’etica dell’architettura e del rispetto, che ha cercato di tenere presente per tutta la vita. Basta ascoltare i modi gentili e, davvero, di un altro secolo, per imparare a capire che Mr. Soleri era realmente un gran signore, geniale, con mille idee, coraggioso, e che mai, proprio mai, avrebbe ipotizzato l’alternativa di non seguire il proprio sogno. Arcosanti, a 70 miglia da Phoenix, resta una visione concretamente ottimista sul domani, che tenta di mostrare alle nuove generazioni di architetti che un’alternativa è possibile.


Alias il manifesto, 14 settembre 2013

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