Maleo
chiude a sud la terra milanese sulla sponda destra dell’Adda: un
antico castelliere di pianura prossimo a un confine e a un guado.
Tenuto e trapassato da tante parti lungo la storia padana, anche nel
nome, che potrebbe venirgli da un console romano che l’avesse
ricomposto e munito come dalla conformazione rotonda e sporgente del
suo approdo fluviale. In ogni momento e caso sempre fermo e vivo,
carico di gente e di cose che si rinnovano di continuo nelle soste e
nei transiti. Tipico luogo di ricovero e di fuochi, attrezzato per le
riparazioni, le refezioni e gli scambi.
Un
inventario dei beni di Maleo datato 1464 riporta: «Taberna iacens in
burgo loci Malei; pred. I, ubi dicitur in Girlo». Oggi quella
taverna, cioè il ristorante che si impone a distinguere ancora
Maleo, si chiama Albergo del Sole. Il nome gli fu probabilmente
dettato dalle luminose pacificazioni rinascimentali e giustamente è
stato confermato oltre l’estinguersi del servizio di alloggio a
causa della fine del guado e della novità delle vie di comunicazione
della regione.
Nel
1893 l’Albergo del Sole fu acquistato dal nonno dell’attuale
proprietario, che si sistemava in paese e con un lavoro dopo essere
stato per una quindicina d’anni in giro per il mondo come militare.
Era un uomo d’iniziativa e d’esperienza e sortiva da una famiglia
di osti che aveva tenuto banco in vari paesi e centri della regione,
di qua e di là dall’Adda e fino al Po.
La
gente della regione mangiava soprattutto ciò che producevano i suoi
campi: minestroni di verdure, minestre di riso e rape, risotti,
salumi, bolliti, formaggi, e beveva un vino rosso senza nome che gli
arrivava dall’Oltrepò piacentino. Giacomo Marchesi migliorò e
variò quei piatti con le conoscenze di altri prodotti regioni e
cucine che aveva fatto da soldato, e anche con i ricordi e le voglie
di chi aveva visto il mondo e la bellezza della sua varietà, e aveva
imparato ad essere moderno e a saper guardare il futuro. Si dedicò
al mestiere di albergatore e cuciniere con ogni capacità, sostenuto
da una premura morale e ispirato a una solerzia proprio culturale,
quale si rivela dal quaderno delle ricette che scriveva nitido e
puntuale come un diario a lato degli esperimenti e delle innovazioni
pratiche.
Resta
manoscritto il ricettario secolare dell’Albergo del Sole con più
di cento piatti esemplari, tipici della cucina locale tradizionale,
corretti dalle influenze dei tempi e delle novità di ogni tipo,
riferiti per quanto possibile alle regole più raffinate della grande
cucina francese.
Uno
studente di ingegneria a Pisa che vi fosse giunto a metà degli anni
Cinquanta dai campi profondi di Maleo, sortito da quella famiglia
dell’Albergo del Sole, con il liceo classico tutto fatto avanti e
indietro in bicicletta da Codogno per una strada imparata in rima,
doveva in quel tempo, a metà materno e a metà di crudele strappo,
sentirsi contrastato e costretto a una scelta.
Franco
Colombani tornò a casa, davanti alla cucina del Sole, ritrovandosi
nella decisione di continuare a farla andare e di renderla capace di
assecondare la sua vita. Cucinare era un’arte riconosciuta e
scritta, molto vicina alla letteratura e alla politica. Riprese il
manoscritto di centoventi pagine con tutte le ricette nella bella
calligrafia del nonno e andò a cercare nelle biblioteche e nelle
librerie antiquarie libri di cucina antichi e moderni, sempre
conservati come testi fondamentali di storia e di cultura. Colombani
cominciò a raccoglierli, dapprima quelli di ambienti prossimi al
suo, Milano, Mantova, Venezia, e appresso qualsiasi altro che lo
incuriosisse e che gli piacesse, francese come napoletano.
La
cucina di Colombani è un’operazione di cultura; non solo per la
verità che esiste al mondo e circola tra la gente, ma perché è
studiata e istruita in ogni sua fase, sapientemente portata al
confronto con la natura e con i testi. Colombani ha lavorato e
studiato secondo questo principio e adesso si compiace di saper
estrarre antiche ricette, per esempio dai libri dei Gonzaga, e di
versarle eseguendole alla lettera e assecondandole ricreando i modi
tempi ambienti confacenti, fino alle ultime note della confezione.
Egli stesso si apparecchia per consumare quella vivanda, monumentale
o medicamentosa che sia, a cibarsene e a valutarne ogni effetto, così
da penetrarla e conquistarla in pieno fino a poter decidere di
ripresentarla al presente e di distribuirla.
Prima
di arrivare a Maleo e di entrare nell’Albergo del Sole ero
piuttosto indifferente verso quella novità che mi toccava e anche un
poco diffidente come per una sorta di sofisticazione edonistica,
arrosto e fumo del privilegio, essenza sottile del potere, esclusiva
ed elusiva. Io mangio sempre volentieri e anche molto, ogni volta più
che a sazietà. Ho quasi tutti i giorni fame a mezzogiorno e al
tramonto e spesso anche durante il giorno e la notte, e sempre mi
rivolgo con affetto e riconoscenza ai cibi, pane, formaggio, legumi,
pesci, uova, frutta e con maggiore concentrazione alla pastasciutta
nel piatto, alle zuppe nella scodella, agli umidi nei tegami. Un buon
piatto è come una buona lettura o un’azione ben riuscita: rinforza
la presenza materiale e possibile della libertà.
Tuttavia,
non sono uno che faccia viaggi anche brevi per andare a mangiare e
che spesso si conceda pranzi e cene nei ristoranti raffinati. Mi
dispiace spendere più di 15.000 lire per un pasto e almeno da tre
anni a questa parte ho limitato le refezioni fuori casa. Ho una
concezione rurale e un poco conventuale del cibo. Non spreco e non
butto mai via niente di roba da mangiare. Gli sfarzi eccezionali li
accetto per devozione, o li devasto con l’avidità della colpa di
una trasgressione o di una sfida.
Considero
ancora la frutta, di qualsiasi tipo, una portata gratificante: festa,
malattia, fortuna. I mandarini me li portava la befana. Non ero
povero né abitavo in un luogo sperduto e di grave depressione, ma la
prima banana l’ho presa in mano dopo la guerra, a vent’anni. Dai
miei nonni possidenti di campagna, i filari di uva moscatella,
riservata ai pranzi illustri o alle ceste di tributo o di
riconoscenza, erano nascosti, irraggiungibili tra gli altri:
bisognava diventare adulti e responsabili per conoscerne il posto.
Così
nell’Albergo del Sole, mentre mi accomodavo dopo il primo impatto,
subito grato per la verità, nella nitida, tenera umiltà
dell’ambiente (il cotto del muro esterno, la dimensione docile
della casa, la compostezza appena sonora dell’insegna) mi pareva
proprio di arrivare a conoscere il posto di una bontà. Mi avvicinai
alla tavola lunga con tanti posti ai lati, in fila verso il camino
centrale della cucina.
Dai
miei nonni, nel comune di Frontone alle rampe del Capria, in una
tavola simile ci si sedeva normalmente in più di venti, secondo il
gruppo dei lavoranti stagionali: una o due volte nell’anno anche in
sessanta-settanta, per qualche evento non del tutto straordinario.
Ogni cosa che veniva servita era di casa e fatta in casa: il caffè
veniva tostato nel camino e il mistrà distillato davanti al fuoco
con l’aggiunta di una cartina di drogheria.
La
cena della vigilia di Natale era l’unico pasto rituale dell’anno,
che si apriva con un brodo di ceci liscio con poco olio e rosmarino;
seguivano diverse portate di pesce, comprato con devota larghezza da
pescivendoli di affidamento tradizionale: dapprima la severità del
baccalà e dell’aringa, companatici molto noti e frequenti, poi la
varietà dei roscioli e delle sogliole in graticola, della razza e
della batraccola lessate, il calore odoroso dell’anguilla allo
spiedo. Potevano anche esserci, secondo l’annata, gamberi di acqua
dolce presi nei torrenti vicini e salmone affumicato o in scatola
mandato dai parenti del Canada. Indispensabile era un enorme
sampietro tutto sano, visitato con devozione per tutto il giorno
sulla tavola in cucina per quell’impronta ben chiara del pollice
del santo pescatore che l’aveva tirato fuori di sua mano dal mare e
convertito al mondo degli uomini.
Colombani
mi si rivelò presto con la stessa compenetrata sapienza e generosità
di quelle convinzioni e usanze. Non mi sentivo in un posto lontano e
tanto prezioso da essere un punto dell’ostentazione più alta della
ricchezza e del gusto. Cominciavo con animo libero a notare la verità
e la nobiltà del sito: vani luce attrezzi mobili stoviglie corredi
dipinti alle pareti; la precisione e la sicurezza di ogni cosa, come
di ogni rapporto e funzione.
L’ultimo
adattamento dei locali fu fatto nel 1960. La dimensione è rimasta la
stessa, nella misura di un gruppo di uomini che cucinano e mangiano
nella pubblica locanda di un centro mandamentale della Lombardia.
Alcuni, forse i meno accreditati, allo stesso tavolo davanti al
fuoco; altri, individualmente o in compagnie discrete, nelle stanze e
a tavoli distinti. Questi possono guardare il tempo e la campagna
fuori e tener d’occhio il cortile. I mobili sono ancora quelli,
oppure come quelli. Colombani li ha scelti e accordati uno per uno
acquistandoli nei palazzi e nelle ville intorno delle vecchie casate.
Ancora quelli sono i posti: trentotto coperti per ogni fuoco, pranzo
o cena. Il trentanovesimo avventore non deve nemmeno aspettare: non
sarebbe ospitale servirlo dopo, in modo e con vivande fuori
dell’unità di tempo e regola.
Eppure
la cucina di Colombani non ripete, rigidamente sacra a se stessa: può
confezionare e imbandire quattrocento piatti diversi tra primi,
secondi, contorni, dessert, sorbetti. Fra questi spiccano le sue
specialità magistrali, ma anche tutti gli altri sono ciascuno di
pregevole qualità. Colombani sceglie misura mette aggiunge controlla
di persona ogni giorno ogni cosa per ogni razione, dalla materia
prima di base a quella degli ingredienti complementari, dai fornelli
ai recipienti, dagli aromi al tempo di cottura. Così ha imparato
l’arte di trasformare alcuni materiali e impasti in cucina
originale e di stile, valida come parametro. È diventato un maestro
con una propria concezione dei cibi, della cucina e del mangiare
secondo la linea storica della cucina italiana. Anche per merito suo
la cucina italiana è ben riconoscibile nella sua vasta e fertile
unità sopra i limiti e le indulgenze regionali, sia sociali che
materiali, nei climi e nelle economie produttive.
Alla
tavola del Sole si sentirebbe a suo agio, sereno e con buon appetito,
qualsiasi italiano d’ogni regione e condizione: vi si può affidare
a un’aria sua, ritrovarvi sapori buoni al massimo del timbro,
gustarvi novità attese.
Quella
di Colombani è una cattedra per un corso complementare ma non
secondario di storia: da riconoscere e frequentare come tale. Egli
deve continuare a spiegarla con questa coscienza, nella sua linea di
sapienza e di ricerca, di analisi e di confronto delle materie prime,
degli strumenti, dei consumi, dei cambiamenti di produzione e di
gusto. Egli è impegnato a lottare proprio culturalmente contro le
sofisticazioni e le adulterazioni dei cibi come degli artificiali
modelli di suggestione e di successo.
Dopo
averlo conosciuto e visto il suo Sole, capisco meglio la verità del
cibo e della cucina e dell’importanza non solo animale e materiale
del mangiare. Capisco di più il lavoro della cucina come operazione
fondamentale perché tutto non diventi «razione» o «dose» e
nemmeno pasticche e bevande da masticare e succhiare tra l’una e
l’altra delle inquadrature del mondo-rama.
Ogni
mattina buona io riconosco il pane, la fiamma del gas, il caffè e
quando non mi accade vuol dire che la cecità di un’insonnia o il
riflesso di uno scontro imminente mi accalcano verso la finestra a
cercare nel cielo spazi provvidi e languidi, o lucidi spiragli come
binari nell’aria industriale delle sette a Milano che va forte
verso i grattacieli del potere. Augurerei a Colombani di riconoscere
sempre le sue vivande e di trattarle in modo che ciascun altro possa
sempre riconoscerle come materiali beni della propria giornata.
“La
Gola”, Anno I n.1, ottobre 1982
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