Comunque finisca la
partita sulle banche italiane, Monte dei Paschi in testa, è certo
che ci sarà una gara di ritorno, e non si svolgerà tra gli
applausi. Parliamo non di crediti in sofferenza né di stress test.
Ma di persone.
Circa 30 mila dipendenti
sono destinati a lasciare il posto entro il 2018, quasi un decimo dei
332 mila che lavorano negli istituti quotati in Borsa. Al totale
vanno aggiunti i 1.696 della Banca Etruria appena salvata, i 915
della Popolare di Spoleto, gli 839 della Tercas ed i 3.252 della
Popolare di Bari. Dunque oltre 338 mila dipendenti, uno su dieci dei
quali potrebbe andare a casa. Il dato si ricava intanto da un dossier
di Prometeia, tra le principali società di consulenza,
intitolato Previsione nei bilanci bancari e datato ottobre
2015, prima delle crisi più recenti. «Sommando ai tagli già
annunciati quelli venturi derivanti da piani industriali esistenti,
fusioni, processi di digitalizzazione, in prospettiva triennale si
arriva a quota 27.500 esuberi», dice lo studio.
Undicimila sono appunto
già previsti da piani come quello dell’Unicredit, che ha
annunciato in tre anni il taglio di 18.200 dipendenti, in parte in
Italia. Prometeia poi analizza le ricadute per le fusioni dopo
la riforma delle banche popolari.
«Abbiamo provato a
quantificare il potenziale di riduzione costi se il processo
coinvolgesse 8 sulle 10 Popolari che dovranno trasformarsi in società
per azioni, prevedendo risparmi per circa 1,1 miliardi pari all’11%
dei costi operativi, dalle tre aree classiche di intervento:
piattaforma informatica, razionalizzazione della rete di sportelli,
riduzione delle complessità». La società prevede «la creazione di
due poli a composizione variabile che porterebbero a una riduzione
del personale a regime intorno al 9% rispetto al 2014, pari a 6.500
dipendenti».
Un’altra stima,
elaborata da pianoinclinato.it per Pagina99, mette a confronto la
capitalizzazione media delle banche nelle ultime settimane con la
quantità di personale. Il rapporto non è usuale (per esempio come
quello tra prezzo delle azioni e valore di libro, indice dello stato
di salute del capitale azionario), tuttavia dà un’indicazione
puntuale di quanto il mercato valuta, tra gli altri asset, i
dipendenti delle banche. Basta leggere la tabella in questa pagina:
le banche italiane capitalizzano in media 0,156 miliardi per
dipendente; chi sta al di sopra ha il personale più “coperto”
dal capitale, chi è sotto probabilmente avrà dei problemi. E sotto
la media ci sono abbondantemente Mps e Carige, ma anche Unicredit,
Ubi e Banco Popolare, cioè la seconda, terza e quinta banca
italiane. Migliore è la situazione a Intesa, prima banca, e per il
Credem, quarta, con un rapporto capitalizzazione/dipendenti di oltre
il triplo rispetto a Unicredit, e meglio ancora per istituti più
piccoli come Ifis e Sistema.
Benché il “Financial
Times” abbia scritto che «in Italia ci sono più sportelli bancari
che pizzerie, e quindi oltre al nodo delle sofferenze si dovrà
affrontare anche quello dei tagli: alcune filiali vanno chiuse e
devono essere eliminati migliaia di posti di lavoro» (a Renzi il
quotidiano della City dà atto di aver fatto «più di tutti i
predecessori, ma troppo poco e troppo tardi»), il problema del
capitale in rapporto al personale non è solo italiano.
Intanto il numero:
secondo gli ultimi dati della Bce del giugno scorso, le 643 banche
italiane si confrontano con le 1.760 tedesche, le 663 austriache, le
460 francesi e le 214 spagnole. Forse il dato più interessante è
proprio quello della Spagna, che ha ricevuto nel 2012 gli aiuti
europei per il settore bancario realizzando un duro processo di
ristrutturazioni, oltre a una bad bank per le sofferenze. Viceversa
la Germania, che ha ricapitalizzato le sue banche con 197 miliardi di
aiuti pubblici, cifra che sale a 465 miliardi con garanzie statali e
linee di liquidità, non sembra passarsela molto meglio di noi.
Infatti secondo il nostro
dossier le due maggiori banche tedesche, Deutsche Bank e Commerzbank,
hanno un rapporto tra capitale e dipendenti pari alla media italiana,
la prima, e inferiore, la seconda. Deutsche Bank capitalizza però 11
miliardi meno di Intesa avendo 11 mila dipendenti in più. Problema
che non hanno le banche francesi, a parte Societé General, quelle
spagnole, svizzere e, nonostante la Brexit, al momento neppure quelle
inglesi. Dunque come sempre possiamo aggrapparci al paragone con la
Germania. Ma come si è arrivati ad avere «più filiali che
pizzerie»? Gli anni ruggenti dell’apertura frenetica di sportelli
per gestire la seconda ricchezza familiare del mondo e un mercato dei
mutui allora in pieno boom non bastano a spiegare la nostra anomalia.
Già dal 2000 al 2015 gli
esuberi bancari sono stati infatti 45 mila, beneficiando di scivoli e
altre agevolazioni in gran parte autofinanziate, ma, per quanto
riguarda le pensioni, anche a carico dei contribuenti. L’ultimo
contratto dei bancari di aprile scorso, poi, prevede deroghe al Jobs
Act, in particolare il mantenimento delle tutele dell’articolo 18
in caso di riassunzione da società diverse. E anche la Banca
d’Italia ha spesso sottovalutato il fenomeno, salvo accorgersene
nell’ultima relazione di Ignazio Visco del maggio 2016. Eppure nel
paese dove la crisi è nata, gli Usa, la situazione appare ben
diversa.
Citigroup, il primo
gruppo bancario commerciale, ha 300 mila dipendenti, 125 miliardi di
dollari di capitalizzazione con un rapporto tradotto in euro
capitale/dipendenti di 0,375. Ancora meglio Wells Fargo, 260 mila
dipendenti, capitale di 245 miliardi: rapporto di 0,85.
La Bank of New York
Mellon, 41,6 miliardi di capitale e 48 mila dipendenti, ha un
rapporto quasi pari a uno. La Pacific Western Bank di Los Angeles,
pur con agenzie in California, Arizona, Utah e Texas, ha meno di
mille impiegati per 4,8 miliardi di capitale: rapporto di 4,3, un
record. Le banche americane sono anche tornate ad assumere: la
Goldman Sachs, che nel 2015 ha ingaggiato 9.700 persone, quest’anno
ha già ricevuto 224 mila domande. Per la Deutsche Bank, invece, solo
stagisti.
Pagina 99, 16 luglio 2016
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