Spadaccia e Pannella in tv, 1978 |
Raccontare Marco Pannella in uno spazio
finito non si può. Tanto più per chi, come Gianfranco Spadaccia, 81
anni, tra i fondatori e storico dirigente del Partito Radicale, con
lui è cresciuto e si è formato, intrecciando lotte, destini,
passioni politiche e amori per oltre tre quarti della propria
esistenza.
Cosa è stato per lei Marco
Pannella?
Innanzitutto un grande amico. Una
persona che ha avuto molta importanza nella mia formazione
complessiva, nella mia personalità: lui aveva 23 anni e io 18 quando
ci siamo conosciuti. E un leader politico. Molti dicono carismatico:
certamente aveva un grande carisma, ma pochi come lui sapevano
parlare agli studenti come ai suoi coetanei, e aggregare gente
attorno a battaglie politiche impervie, difficili da affermare prima
ancora che da vincere. E’ stato il mio leader politico: senza di
lui, battaglie a cui ho felicemente contribuito e che ho onorato con
il carcere e con gran parte della mia vita, non si sarebbero potute
combattere.
Senza di lui il Partito Radicale
sarebbe quello che è oggi?
No. Senza Pannella e senza il gruppo
che, nei sette anni del “Mondo” di Mario Pannunzio (settimanale
politico fondato nel ’49, da cui nel ’55 nacque il Partito
Radicale, ndr) , si spinse oltre e che temerariamente decise di
portare avanti quell’idea, il Partito Radicale non sarebbe nato. Ma
Pannella non ce l’avrebbe fatta, senza quel gruppo di cui era
leader: Bandinelli, Mellini, Teodori, Giuliano e Aloisio Rendi, io e
altri che mi scuseranno se oggi dimentico di citare. Eravamo il
gruppo dirigente della sinistra radicale. Poi a metà degli anni ’60
si aggiunse Loris Fortuna che presentò la prima legge sul divorzio.
Ed è singolare che questo deputato socialista, friulano, trovò
interlocutori e compagni, anziché nel suo partito, tra i radicali. E
fu dentro il nostro partito che nacque l’idea della Lega italiana
per il divorzio. Senza Marco non avremmo avuto la capacità nemmeno
di tentarla, quella strada.
La sua leadership è sempre stata
riconosciuta dentro il partito, ed è davvero rimasta inalterata
negli anni?
Lo fu fin dall’inizio. L’Unione
goliardica italiana, di cui era leader insieme a Franco Roccella e a
pochi altri, non aveva nemici a sinistra perché anche i comunisti ci
stavano dentro. Era, per usare una categoria gramsciana, un’unità
di sinistra a egemonia liberaldemocratica e laica. In un Paese in cui
la sinistra era frammentata e divisa, e in cui qualsiasi idea di
egemonia laica era stata seppellita sotto l’accordo dell’articolo
7 della Costituzione sui Patti lateranensi. La battaglia che
combatteva Marco, e noi con lui, era contro l’unità politica dei
cattolici. Quindi non con l’anticlericalismo ma facendo riferimento
alla rivista Esprit, al personalismo di Maritain, al comunitarismo di
Mounier, a Bernanos, a Mauriac: cioè a quella cultura cattolica
minoritaria degli anni ’40 e ’50 che poi diventa determinante nel
Concilio. Pannella li citava negli anni ’50 quando in Italia quei
testi erano quasi banditi.
Furono anni di scontri durissimi
tra comunisti e radicali, ma anche di incontri. Molto tempo dopo però
Pannella, da liberale e liberista quale era, anche nel campo della
politica economica, si ritrovò spesso più vicino a Berlusconi che
agli eredi di quella sinistra, è così?
Sono convinto che nella polemica tra
Croce e Einaudi, Pannella era dalla parte di Croce. Poi negli anni
’90 effettivamente rivalutò Einaudi perché pensava ci volesse una
scossa liberalizzatrice. Tuttavia la concezione del liberismo che
aveva Marco – Bertinotti lo ha capito perfettamente – non aveva
nulla a che fare con la finanziarizzazione dell’economia, perché
il liberalismo economico e einaudiano presuppongono regole. È
esattamente il contrario della deregulation. E quando Occhetto
fece la sua svolta della Bolognina, Marco dialogò con lui per due o
tre anni, presentando a Catania, all’Aquila e a Teramo, la sua
città, liste civiche che andavano nella stessa direzione. Ma poi
quando nel ’93 e ’94 scoppiò Mani pulite il Pds mutò
rapidamente la scelta delle alleanze: invece di guardare a Pannella,
i post comunisti guardarono a Orlando, che con Marco e la concezione
radicale dei diritti era incompatibile. I rapporti con i socialisti
si sono rotti sul proibizionismo, con Occhetto sul caso Tortora.
Certo, con Berlusconi Pannella tentò seriamente l’alleanza su
questioni come il presidenzialismo e i collegi uninominali ma il
Cavaliere fece il Porcellum e si rivelò il peggiore avversario dei
sistemi elettorali più democratici. Quel tentativo di accordo è
durato tre mesi, non di più, ma gli ha bruciato i rapporti con la
sinistra. Dopodiché è vero che non demonizzava nessuno: per lui
esisteva solo il dialogo per il cambiamento che si vuole. E bisogna
riconoscere che quel dialogo con Berlusconi consentì un’impennata
dei diritti umani negli anni ’90, quando cominciano a costruirsi i
presupposti per il Tribunale penale internazionale o la moratoria
della pena di morte. Marco è stato il leader dei diritti civili e
umani e della democrazia, non solo in Italia.
Come nasce la scelta della
nonviolenza?
Alla fine degli anni ’50 avevamo
costruito una rete di sostegno al Fronte di liberzione algerino e di
quanti in Francia si battevano per la fine del colonialismo in
Algeria. Quando cominciano a scoppiare le bombe che ammazzano bambini
e donne, non i parà che torturavano i combattenti algerini ma i
bianchi nati e cresciuti in Algeria, ecco, credo che fu in quel
momento che scegliemmo la nonviolenza. Poi, nell’incontro con
Capitini e con la prima sana ventata di paura per la bomba atomica,
si rafforza l’impegno contro l’idea liberale del tirannicidio, a
favore invece della convinzione che bisogna mettere in gioco se
stessi e la propria libertà. Quindi la nonviolenza, l’uso del
corpo e i digiuni da un lato, e dall’altro la disobbedienza civile,
diventano le nostre armi.
E Pannella entra in risonanza con
il buddismo tibetano… Da lì la scelta transnazionale?
Noi siamo sempre stati iscritti al
movimento federalista europeo, da ragazzini abbiano frequentato le
case di Ernesto Rossi e Altiero Spinelli. L’idea di transnazionale
europea e mondiale ha fatto sempre parte della nostra cultura, fin
dai tempi dell’Algeria. Sentivamo vicini i cecoslovacchi e i
musulmani, uiguri, tibetani, cristiani vietnamiti… Finché abbiamo
avuto un gruppo parlamentare, prima che Veltroni e Berlusconi ce lo
togliessero, eravamo i portavoce di queste richieste di democrazia
nel mondo che approdavano al parlamento di Strasburgo e a Bruxelles.
Mettevamo i nostri strumenti a disposizione. Purtroppo in occidente
la ragione di stato prevarica lo stato di diritto.
Negli ultimi tempi, Pannella
entra poi in particolare sintonia con Papa Bergoglio…
Gli anticlericali Bonino e Pannella
furono ricevuti anche da Giovanni Paolo II, con il quale c’era
grande distanza politica sulle quesioni di bioetica, e che tuttavia
avevamo apprezzato quando andò in sinagoga a riconoscere i «fratelli
maggiori» e quando fece appello per l’amnistia e l’indulto. E
Marco andava a San Pietro a dialogare con Wojtyla sulla questione del
sottosviluppo e della fame nel mondo. Anche Bergoglio è stato un
Papa dirompente. Il nostro anticlericalismo non è antireligioso ma
al contrario è pervaso di religiosità laica: la religione della
libertà di cui parlava Benedetto Croce nella Storia d’Europa.
Pannella ha sempre rifiutato di essere definito non credente, diceva
di essere «credente in altro».
Qual è
l’ultima grande idea visionaria che ci lascia?
Forse «spes contra spem»:
l’idea che la speranza presuppone intransigenza, duro impegno, per
conquistarla. Essere e non averla. La speranza non va confusa con
l’illusione.
“il manifesto”, 20 maggio 2016
Nessun commento:
Posta un commento