Roma - Oggi Turi Ferro,
nato il 10 gennaio del 1921, diventa uno splendido e carismatico
ottuagenario, e per onorare la sua taglia forte di artista militante
depositario della grande tradizione c'è in programma, venerdì, il
debutto ufficiale di uno spettacolo che il Teatro Stabile di Catania
ha concepito appositamente per lui protagonista, La cattura di
Andrea Camilleri, pièce liberamente ispirata alla novella di
Pirandello (che Ferro già interpretò in altra chiave nel film Tu
ridi dei fratelli Taviani). Al lavoro prendono parte anche la
moglie Ida Carrara e Gian Paolo Poddighe, con messinscena di Giuseppe
Dipasquale.
L'amico e conterraneo
siciliano Camilleri ha voluto rendere omaggio ai miti di Pirandello e
alla modernità dell'attore riscrivendo la vicenda d'un sequestro di
persona ad opera di balordi, accentuandovi la spietata ipocrisia dei
famigliari del rapito. L'allestimento, omaggio al decano degli attori
italiani, nasce al Teatro Verga di Catania, sede anche della mostra
antologica Turi Ferro, magia del teatro a cura di Enzo
Zappulla e Sara Zappulla Muscarà (foto, costumi, copioni e la barca
dei Malavoglia), e poi La cattura si replicherà
quest'anno in Sicilia e Puglia. «Spero tanto di non essere celebrato
solo per la coincidenza coi sedici lustri. Non ho ancora avuto il
tempo d'avere la mia età» si schermisce Turi Ferro «La testa
funziona. Le gambe non sono da ottantenne. Noi gente del teatro
abbiamo sempre da fare, sogniamo, deliriamo. Io vado ancora di
persona a comprarmi le scarpe di scena. E ho avuto la fortuna di
trovarmi in una terra formicolante di storie e di romanzi, sono
cresciuto portato per mano da signori autori».
Le fa piacere o è
scomoda, per lei, la fama di massimo interprete pirandelliano? «Non
è che voglia sfuggire a un grembo naturale, quando dico che
Pirandello è straordinariamente ingombrante, è un rifugio
amatissimo che può divorarti l'anima. Forse è pericoloso, sentirsi
specializzati. Quando, alle prese nel '96 con una specie di Freud ne
Il visitatore di Schmitt, m'hanno ribattezzato catanese
tedesco, non nascondo d'essere stato molto soddisfatto. Mi riconosco
un'incrollabile forza d'immedesimazione. Tutto è cominciato fin dai
patimenti della gioventù, fuori da scuole, da accademie, da libri.
Senza alcuna retorica, il mio chiodo fisso è stata la fatica, il
battagliare a teatro, con una fantasia da artigiano più che da
attore intellettuale. Nel senso che ho fatto sempre i conti coi miei
gusti, con le mie fedeltà e con le mie tenacie».
Niente rimpianti? «No.
Sono stato gratificato dal mestiere, dal pubblico, da compagni di
lavoro, da oltre 40 anni di lealtà allo Stabile di Catania, e dalla
famiglia. Mia moglie, Ida Carrara, ha perfino sacrificato un po'
della sua professione per me, sostenendomi, dandomi tranquillità. E
mio figlio Guglielmo m'è stato già più volte accanto come regista.
A pensarci bene, ho un po' il rimpianto di non aver fatto mai
l'Enrico IV di Pirandello, ma anni fa lo interpretava con
saggezza e loicità Randone, il più grande attore italiano del '900,
e allora...».
Insomma, a lei che compie
energicamente 80 anni dovremmo piuttosto chiedere quali sono le
prospettive? «Non mi tiro indietro, ma le dico che intorno vedo poco
chiaro. Avverto un disagio di cui non distinguo bene la fonte, le
cause. Io ho vissuto non solo la mia vita ma, bene o male, la storia.
E ora c'è in giro una scomparsa o un gonfiarsi simulato di valori.
La mia esistenza, vede, è stato un oscillare regolarissimo di casa e
teatro. Oggi ci sono persone "non giuste" e senza la dovuta
gavetta che occupano palcoscenici importanti».
Quali consigli darebbe
alle nuove generazioni di teatranti? «Evitare la fretta. Osservare.
Tener conto solo di una sincera vocazione. Impegnare la propria
sensibilità. Ed esercitare la sana cattiveria, quando è necessario:
artisticamente parlando, la cattiveria è un'asprezza che dà senso
alle cose, è uno scrupolo, è una libertà. Io non vedo l'ora,
circondato da giovanissimi, anche da bambini, di togliere le bende a
un mio futuro Enrico IV, raccontandone la favola seria.
Intanto mi riconcilio con le generazioni catanesi (e non) degli
spettatori di oggi. Perché solo quando s'alza il sipario c'è posto
per i prodigi spontanei. Perché recitando Brancati, Verga, Sciascia
o Pirandello, scrittori cui sta stretta la definizione di
"siciliani", non sono più un rispettabile artista isolato
e isolano, di razza, ma forse anche un Turi Ferro mago moderno. O
no?».
“la Repubblica”, 10
gennaio 2001
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