11.8.16

Dai "Saggi" di Montaigne. Libro I, capitolo XIII

Cerimoniale delle udienze reali
Non c’è argomento tanto vano da non meritare un posto in questa rapsodia. Secondo le nostre comuni regole, sarebbe una notevole scortesia, nei
riguardi d’un vostro pari e più nei riguardi d’un grande, non farvi trovare in casa quando egli vi avesse avvertito di dovervi venire. Anzi, aggiungeva a questo proposito Margherita, regina di Navarra, sarebbe inurbanità da parte di un gentiluomo uscir di casa, come per lo più si fa, per andar incontro a colui che lo viene a trovare, per grande ch’egli sia; ed è più rispettoso e cortese attenderlo, per riceverlo, non fosse che per timore di sbagliare strada; ed è sufficiente accompagnarlo alla sua partenza.
Quanto a me, dimentico spesso l’uno e l’altro di questi vani doveri, perché in casa mia abolisco ogni cerimonia. Qualcuno se ne offende: che posso farci? È meglio che offenda lui per una volta, piuttosto che offender me tutti i giorni; sarebbe una continua soggezione. A che scopo si fugge la servitù delle corti, se la si trascina fin nella propria tana?
È pure una regola comune in tutte le assemblee, che tocchi ai meno elevati di grado trovarsi per primi al convegno, mentre ai più elevati si conviene piuttosto farsi attendere. Tuttavia nell’incontro di papa Clemente e del re Francesco che fu preparato a Marsiglia, il re, dopo aver ordinato i preparativi necessari, si allontanò dalla città e dètte al papa due o tre giorni di tempo per entrare e per riposarsi, prima di andare a fargli visita. E allo stesso modo anche in occasione della venuta del papa e dell’imperatore a Bologna, l’imperatore dètte modo al papa di arrivarvi per primo, e vi giunse dopo di lui. Dicono che sia un cerimoniale abituale, negli abboccamenti di tali principi, che il più grande arrivi prima degli altri al luogo fissato, magari prima di colui presso il quale avviene il colloquio; e l’intendono in tal modo, cioè che tale formalità testimoni che è il più grande che gli inferiori vanno a trovare e cercano, e non egli loro.
Non soltanto ogni paese, ma ogni città ha una sua particolare forma di urbanità, e così ogni professione. Io sono stato educato in tal senso assai accuratamente durante la mia infanzia, e ho vissuto in un ambiente abbastanza buono per non ignorare le leggi della nostra civiltà francese; e potrei farne scuola. Mi piace seguirle, ma non tanto servilmente che la mia vita ne risulti vincolata. Esse hanno alcune forme penose che, se si dimenticano, purché sia per discrezione e non per errore, non per questo si manca di gentilezza. Ho visto spesso uomini ineducati per troppa educazione e importuni per la loro cortesia.
Del resto, è una scienza assai utile quella di sapersi comportare tra la gente. Essa è, come la grazia e la bellezza, conciliatrice dei primi passi della socievolezza e della familiarità; e, di conseguenza, ci apre la porta a istruirci con gli esempi altrui, e a mettere in opera e in mostra il nostro esempio, se vi sarà in esso qualcosa d’istruttivo e di comunicabile.

Postilla
La traduzione, di Fausta Garavini, è tratta da Montaigne, Saggi, Adelphi, 1982. Ho eliminato le note e le indicazioni relative alla stratificazione cronologica del testo. (S.L.L.)

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