Per decenni oscurato
dalla fama di Eduardo De Filippo, a lungo considerato un «minore»,
Raffaele Viviani è ormai da tempo un autore che ha il ruolo che gli
spetta nella storia del teatro italiano; ma non solo del teatro,
perché Viviani fu anche poeta e compositore di straordinarie canzoni
che hanno sempre marcato una sostanziale differenza con il mainstream
della canzone napoletana. È quanto mai opportuna, dunque, la
pubblicazione del volume Poesie - opera completa,
amorevolmente curato da Antonia Lezza (Guida, pagg. 493, euro 29,50),
che comprende l'integrale in versi dell'artista partenopeo, che ebbe
due sole raccolte di poesie pubblicate prima della sua scomparsa nel
1950: Tavolozza, nel 1931, e ...E c'è la vita, nel
1940 (le successive antologie furono curate dall'amico Paolo Ricci,
da Vasco Pratolini e poi dal figlio Vittorio).
Raffaele Viviani fu il
rappresentante di una Napoli che non trovò grande spazio nella
musica, nel teatro e nella poesia del suo tempo: quando egli cominciò
la sua attività, con l'eccezione di Ferdinando Russo, che però
aveva intenti diversi e si muoveva in una linea decisamente verista,
la locale cultura borghese, ormai trionfante, aveva già da tempo
portato a termine la sua opera di omogeneizzazione delle varie forme
espressive presenti in città all'interno di un nuovo canone
espressivo, marcato da una «giusta misura», da un'intonazione
nostalgica e, soprattutto, dalla neutralizzazione di ogni
imbarazzante testimonianza dei linguaggi della tradizione popolare a
favore di uno sguardo benevolo e paternalistico sulla vita delle
classi subalterne viste come «gente semplice e felice», componente
pittoresca della Napoli «che se ne va». In Viviani non solo il
dialetto utilizzato e le situazioni trattate rispecchiano invece la
realtà dell'eterna plebe napoletana ma la sottraggono nello stesso
tempo al rischio verista, «straniandola» e stilizzandola, per così
dire, tramite l'adozione delle tecniche di scena derivate dal café
chantant e dal varietà (di qui l'utilizzazione della canzone)
che erano state centrali nella sua formazione. La sua Napoli, per di
più, è una Napoli che recupera spesso le forme della tradizione
popolare non tanto nella dimensione
quotidiana, quanto
soprattutto in quella rituale (come in Festa di Piedigrotta, per
esempio), e quindi nel loro momento di maggiore «verità»
culturale, in un quadro d'insieme che già nelle premesse risulta
totalmente avulso dal combinato di stereotipi che tanta parte hanno
nella costruzione di quell'immagine usurata ma ancora attiva che è
la «napoletanità».
Nell'opera di Viviani c'è
una consapevole denuncia della difficile condizione esistenziale del
proletariato e del sottoproletariato napoletano. Vengono mostrati
esplicitamente, per restare alle poesie e alle canzoni contenute nel
volume, la miseria (O sapunariello), lo sfruttamento
(Gnastillo), il carcere (Canzone ‘e sotto ‘o carcere),
la sopraffazione di classe ( ‘A canzone d‘a fatica) e,
insieme a tutto ciò, si intravede una partecipazione all'interiorità
femminile decisamente più avanzata rispetto a quella di altri autori
a lui contemporanei (Tarantella segreta, O 'nnammurato
mio), tutte tematiche che troveranno ancor più compiuta
formulazione nel teatro, dagli atti unici dei primi anni alle opere
più complesse e strutturate della maturità. In relazione a tutto
questo, destano non poche perplessità alcune poesie recuperate e
opportunamente pubblicate in questa edizione; una dedicata al re ('O
benvenuto a ‘o re) e un'altra, dedicata a Mussolini (Saluto
al Duce), entrambe precauzionalmente espunte dalle antologie
uscite nel dopoguerra, quando Viviani fu a lungo etichettato e
interpretato come autore «di sinistra». È noto che, per tutto ciò
che abbiamo detto, oltre che per il fatto stesso di esprimersi in un
dialetto «duro» e plebeo, Viviani fu osteggiato e boicottato dal
fascismo, che naturalmente mal digeriva una simile rappresentazione
di Napoli. È noto anche che l'artista dovette capitolare, scrivendo
personalmente al capo del regime per evitare provvedimenti che in
pratica gli avrebbero impedito di lavorare (la lettera è interamente
pubblicata nell'articolo Appunti sul caso Viviani, di
Francesco Cotticelli, in “Ariel”, Quadrimestrale di drammaturgia
dell'Istituto di Studi Pirandelliani e sul Teatro Italiano
Contemporaneo, anno VIII n. 2-3, maggio-dicembre 1993). Saluto al
Duce, però, è qualcosa di più di un «ringraziamento» o di una
«captatio benevolentiae» nei confronti di Mussolini: si tratta di
un lungo panegirico che fotografa un'adunata in piazza Venezia e in
cui si respira l'esaltazione collettiva di quelle occasioni («Nu
squillo e subito/ scoppia l'applauso:/ appare l'idolo/ fore ‘o
balcone! (...) Nu gran silenzio/ e po', scultoree,/ pronuncia
massime/ ca so' sentenze (...) Sillaba a sillaba: parla l'Oracolo;/
songo
mill'anime:/ n'anima sola
(...) Nasce Littoria/ nasce Sabaudia,/ nasce Pontinia/ 'ncopp' ‘o
pantano (...) ‘E mamme eroiche,/ purtanno ‘o Zaino,/ sanno ca
piantano/ n'atu guerriero! (...) P' ‘a santa causa/ tutte
s'arruolano:/so' gghiute inAfrica/ pure ‘e madonne (...) Stella
d'Italia,/ grazie all'Al-tissimo,/ Tu sì l'Artefice/ d'ogni
Vittoria!»). Oltre a constatare la mediocrità dei versi, insomma,
non si può non rilevare che Viviani ha pienamente assorbito tutte la
più ignobile retorica della sua epoca (e, ahinoi, in gran parte
anche della nostra). In realtà, dunque, queste due poesie, ma
soprattutto quella scritta per il duce (sulla quale la curatrice
«glissa» quasi imbarazzata, attribuendola al «forte dato reale che
spinge il poeta»), lungi dal rappresentare cadute di stile o
incidenti di percorso, illuminano invece anche altri aspetti ambigui
della personalità di Viviani, dissipando le iniziali perplessità e
chiarendo meglio il senso e la natura del suo lavoro.
Viviani fu certamente un
sagace osservatore della vita popolare, e nelle sue capacità di
osservazione, che seppero intuire «cosa» vedere e, nella sua
abilità di autore a tutto tondo, «cosa» rappresentare,va cercato,
in primis, il merito del suo teatro e della sua poesia. Se
egli ebbe sicuramente una sincera partecipazione emotiva e
un'autentica ansia di riscatto nei confronti delle classi subalterne,
non è automatico che questo si sia tradotto in chiara e consapevole
posizione politica. Già Alberto Asor Rosa molti anni fa, nel suo
Scrittori e popolo, aveva constatato, resistendo al fascino
dell'opera del drammaturgo, le sue zone d'ombra, descrivendolo come
«fornito di un'incerta coscienza letteraria e culturale». E,
infatti, prima ancora di soffermarsi su quella dedicata al duce,
anche leggendo altre poesie troviamo dei momenti non proprio
esaltanti,
per un artista che viene
ricordato anzitutto come una sorta di «anticorpo» alla tradizionale
oleografia napoletana: «tirate» municipalistiche (Campanilismo),
banali rimpianti bucolici (Primitivamente,), esaltazioni di
ciò che Marx chiamava «idiotismo del mestiere» ( A mano
d'opera). A ciò si aggiungano anche gli sconfinamenti razzistici
di O tripulino napulitano e di certe dichiarazioni della sua
autobiografia, Dalla vita alle scene, pubblicata nel 1928,
riguardo ai «ricordi eroici della nostra guerra coloniale».
Viviani, insomma, pur
nella sua acutezza di osservatore del popolo napoletano, sembra
incapace a cogliere quella «totalità» in cui si integrano i fatti
sociali e che proprio in quegli anni Gyorgy Lukàcs, in Storia e
coscienza di classe, riteneva indispensabile per la conoscenza
della realtà. E la «coscienza» è esattamente quello che
distingue, nonostante le numerose analogie formali
(l'antinaturalismo, l'uso della musica, la rappresentazione della
miseria, la drammaturgia «per quadri») Viviani da Bertolt Brecht,
al quale un duraturo equivoco lo ha voluto tenacemente accostare.
Viviani aveva la capacità di vedere le contraddizioni sociali e
riusciva a descriverle con efficacia, Brecht le comprendeva nella
loro globalità e le mostrava sarcasticamente nella loro essenza
grottesca («che cos'è l'effrazione di una banca di fronte alla
fondazione di una banca?», ci dice ne L'opera da tre soldi).
Viviani poteva, nonostante la sua partecipazione ai drammi della
parte più misera della popolazione, assimilare senza problemi
l'ideologia coloniale e poi quella fascista, pur apparentemente
negandole nella sua opera. Brecht, che avrà fatto anche lui i suoi
errori, aveva invece chiaro lo scenario della sua epoca e mai sarebbe
scivolato in una simile trappola, perché il suo filtro critico era
maggiore e la sua visione delle cose più ampia e strutturata. Tutto
ciò, ovvio, nulla toglie alla bellezza dell'opera di Viviani, che la
meritoria pubblicazione di quest'opera omnia può aiutarci a
conoscere meglio e a riposizionare criticamente.
Alias il manifesto - 13
novembre 2010
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